Dalla calata dei Longobardi nel 568 d.C. all’Unità d’Italia nel 1861 sono passati poco meno di 1300 anni.
In questo lunghissimo periodo, che va dall’Alto Medioevo fino all’età contemporanea, l’Italia è stata divisa tra imperi, regni, città-stato, comuni, signorie. Questa divisione – unita alla posizione strategica della Penisola, al centro del Mediterraneo – ha fatto sì che nascessero, si sviluppassero e s’introducessero diverse lingue al suo interno.
Prima dei Romani
Questa pluralità linguistica, si deve dire, ebbe un preambolo in età pre-romana, ovvero in un arco di tempo in cui il territorio dell’attuale Repubblica Italiana era abitato da diverse genti – indoeuropee e non – tra cui Greci, Etruschi, Sanniti, Bruzi, Lucani, Messapi, Umbri, Liguri, Nuragici, Elimi, Siculi, Sicani, Venetici, Leponzi, Insubri, Boi, Cenomani e Reti.
L’eredità linguistica dei Romani
Con la conquista romana tutte queste popolazioni – con l’eccezione parziale dei Greci – a poco a poco adottarono la lingua latina (anche se tempi e modalità di romanizzazione cambiarono da zona a zona).
Tuttavia, tracce di alcune di queste antiche lingue – in linguistica si parla di sostrato – rimasero nelle varietà latine parlate in Italia, anche se la quantità di queste tracce sono diverse in base al luogo (nonché discusse: infatti molti – come già a suo tempo denunciava il grande Graziadio Isaia Ascoli – tendevano e tendono ancora oggi ad accentuare più del dovuto queste influenze di sostrato).
Lingue e dialetti nell’Italia medievale
L’invasione dei Longobardi divise l’Italia tra quest’ultimi e i Bizantini, arrivati circa trent’anni prima dei Longobardi (era il 535 d.C.) nel tentativo di riprendersi l’Impero Romano d’Occidente diviso ormai nei regni romano-germanici, e che temporaneamente – dopo una guerra ventennale contro gli Ostrogoti – avevano preso il controllo dell’intera Penisola.
Da lì in avanti – grazie anche alla caduta dei Longobardi, l’ascesa e la divisione dell’Impero Carolingio, l’arretramento dei Bizantini, le venute degli Arabi e dei Normanni, ecc. – l’Italia si sarebbe divisa ulteriormente: ciascuna delle entità politiche pre-unitarie formatesi in seguito a questi avvenimenti storici ha avuto pertanto una sua origine, una sua storia, una sua localizzazione e un proprio habitat, una sua società, delle sue forme economiche, ecc. (ovviamente non erano blocchi separati senza alcun contatto e influenza reciproca, ma ognuna aveva le proprie peculiarità più o meno marcate rispetto alle altre).
Pertanto, questo ha promosso un’ulteriore differenziazione del latino, tanto da far sorgere diverse lingue, producendo quindi anche una differenziazione culturale (così come è successo altrove nella Romània): stiamo parlando non solo dell’italiano standard su base fiorentina, ma anche di quelle che la società e la linguistica italiana definiscono con la denominazione di dialetto, denominazione che possiede diverse accezioni, soprattutto secondo la tradizione accademica della Penisola (si veda, in questo senso, questo articolo: https://patrimonilinguistici.it/dialetto-definizione).
Gran parte dei “dialetti” d’Italia appartengono al sottogruppo italo-dalmatico delle lingue romanze. E’ lo stesso dell’italiano standard, ed è anche (o soprattutto) per questo che la linguistica italiana fa ascrivere i “dialetti” all’italiano, facendo sì che le altre parlate del sottogruppo non vengano considerate come lingue separate – seppure imparentate – dalla lingua nazionale (nonostante si riconosca il fatto che non siano “storpiature dell’italiano”, bensì sistemi linguistici autonomi).
A queste lingue nate dalla differenziazione del latino parlato in Italia si aggiungono altri idiomi di origine non latina (oppure di origine latina, ma non sviluppatesi – totalmente o parzialmente – nel nostro Paese), arrivate nella Penisola nel corso dei secoli a causa, come detto, della sua particolare posizione geografica, la quale ha favorito l’insediamento e/o la conquista da parte di diverse popolazioni e/o di diversi eserciti (altre, invece, sono propaggini, in territorio italiano, di popolazioni con esso confinanti): è il caso, ad esempio, dell’arbërisht, dello sloveno, del croato, dell’arpitano, dell’occitano o del tedesco.
Lingue italiane nell’Italia contemporanea
Entrambe questi gruppi di lingue – ovvero sia quelle nate in Italia, sia quelle provenienti dall’estero (ma che comunque sono parlate nella Penisola da molti secoli, in alcuni casi perfino da millenni: quest’ultimo è il caso del greco) – , come si sa, subiscono oggi la forte ingerenza dell’italiano standard:
- le prime (le lingue regionali italiane) soffrono da lungo tempo di una stigmatizzazione istituzionale e quindi sociale, che ha fatto sì che quelle che a tutti gli effetti sono lingue vengano considerate codici linguistici di serie B a causa di diversi fattori, tra cui il fatto che la gran parte di esse (se escludiamo alcune eccezioni come il veneto, il siciliano o il napoletano) non abbiano mai avuto un qualche uso ufficiale, e che quindi (a detta di coloro che le considerano tali) non abbiano elaborato un lessico adatto per parlare di questioni di un certo peso, che cioè non sappiano quindi andare al di là del mondo quotidiano o agro-pastorale – il cui ambito, presente in molte varietà linguistiche montane, sarebbe già di per sé una ricchezza culturale (basti pensare, ad esempio, al ruolo di certi animali nell’allevamento, come la capra tra i greci di Calabria oppure la vacca in Val Leventina, che han fatto sì che il greco-calabro o la varietà ticinese del lombardo possiedano termini diversi per indicare quegli animali in base alle caratteristiche fisiche da questi possedute), anche se ovviamente le lingue regionali e minoritarie per sopravvivere non possono fermarsi a questo e devono essere capaci di esprimere pure la modernità – , nonostante il fatto che in realtà in ogni codice linguistico in teoria sarebbe possibile parlare di ogni argomento, se solo le circostanze politiche e culturali lo permettessero (vale a dire se un codice linguistico venisse promosso e tutelato dalle istituzioni);
- le altre lingue, invece, hanno sofferto per lungo tempo della stessa stigmatizzazione e dello stesso ambito d’uso ristretto che ha colpito le lingue regionali italiane (anzi, in alcuni casi il loro prestigio era addirittura minore: è il caso, ad esempio, del greco-calabro di fronte al siciliano), ma la cui differenza oggi sta però nel riconoscimento da parte dello Stato italiano attraverso la legge 482/1999. Solo il tedesco (in Alto Adige), il francese (in Valle d’Aosta) e lo sloveno (in Friuli-Venezia Giulia) hanno avuto sempre un certo prestigio poiché lingue ufficiali di stati confinanti con essi – e oggi hanno un ruolo diverso rispetto alle altre minoranze linguistiche italiane riconosciute, perché non sono isole linguistiche ma vere e proprie lingue ufficiali a livello provinciale o regionale (solo il sardo, il ladino e il friulano, uniche lingue regionali riconosciute dalla legge, hanno un status simile) – : è vero che anche queste in passato, specialmente col fascismo, sono state perseguitate, ma i loro locutori non sono mai stati tacciati d’ignoranza.
Un grande tesoro
Le lingue regionali e minoritarie d’Italia rappresentano quindi una ricchezza culturale, e non un impoverimento da estirpare in nome del nazionalismo italiano – nazionalismo che ebbe il suo sviluppo soprattutto nell’Ottocento: per gran parte della storia non ci fu consapevolezza di un’identità italiana, e coloro che l’avvertivano appartenevano soprattutto a ceti agiati e/o colti – o del “progresso”: quest’ultimo, infatti, non è determinato dal numero dei cosiddetti “dialetti” (i quali, anzi, apportano – come da lungo tempo ribadisce giustamente il CSPL – benefici in termini di bilinguismo).
Questi sono prova tangibile (anche se immateriale) della storia e della cultura della Penisola – storia e cultura che in Italia sono più diversificate di quanto si pensi – tanto quanto lo sono i suoi monumenti. L’Italia, secondo l’Atlas of the World’s Languages in Danger dell’UNESCO, è il paese dell’Europa occidentale con la maggiore ricchezza linguistica: trentuno – escluso l’italiano standard – sono le lingue presenti sul suo territorio (compresi i “dialetti”).
E’ una ricchezza che gli italiani dovrebbero riscoprire, apprezzare e tutelare.