Spesso si dice: il bilinguismo è interessante, ma invece di usare il “dialetto” è meglio usare l’inglese.
Ma davvero esiste una contrapposizione tra lingua inglese e lingua regionale?
Questo è uno dei cavalli di battaglia di chi si oppone alla tutela linguistica in Italia e nel mondo.
In questo articolo ti dimostrerò che si tratta semplicemente di una fine forma di benaltrismo e che le due questioni, in realtà, non si escludono l’una con l’altra…

Indice
Serve migliorare l’inglese?
Ovviamente sì.
Tuttavia ricordiamoci sempre una cosa: se una persona arriva a un livello misero di inglese nonostante anni di studi, c’è evidentemente un problema nell’insegnamento.
E così è! L’inglese è studiato troppo come lingua teorica, quasi a livello latino.
I ragazzi vengono sottoposti a lezioni di grammatica e sintassi. Imparano il lessico da liste preconfezionate. Le verifiche vertono sul saper “montare” parole e frasi in maniera corretta. In sé questo non sarebbe un male. Il problema è che in genere ci si ferma qui!

E infatti i risultati si vedono: secondo Education First (EPI) l’Italia è molto indietro nella conoscenza dell’inglese.
Anzi, molto indietro è dire poco: è agli ultimi posti in Europa, dove fanno peggio solo Francia, Russia, Ucraina e Bielorussia. Praticamente, peggio di noi ci sono solo i Francesi, noti per il loro nazionalismo linguistico, e i paesi dove l’inglese è stato introdotto a scuola da poco più di vent’anni…
Quando uscirono questi dati, i giornali italiani fecero titoloni allarmistici e gli intellettuali (per usare un lombardismo) sono caduti dal pero, meravigliandosi della scarsa competenza in lingua inglese del popolo italiano.
La questione in realtà è chiarissima. L’inglese dovrebbe essere studiato di più come lingua viva, con più attività che prevedono un uso effettivo della lingua. Questo nelle scuole italiane non si fa quasi mai.
Ed è un peccato: sarebbe infatti molto meglio imparare l’inglese in modo naturale, cioè usandolo per fare lezione.
A questo punto la mente viaggia veloce. Se basta questo per ottenere una generazione di ragazzi che sa bene sia l’italiano che l’inglese, possiamo ottenere una generazione bilingue. E se è bilingue, può godere di tutti i vantaggi del bilinguismo.
Ma allora facciamo il bilinguismo italiano inglese e lasciamo perdere le lingue locali!
Certo, facilissimo… peccato che sia tutt’altro che facile.
Una scuola bilingue in inglese richiederebbe un’enormità di risorse.
1. Risorse insufficienti (anche nella migliore delle ipotesi)
Non è detto che i docenti attuali abbiano capacità d’inglese così avanzate da poter insegnare in questa lingua, né è pensabile convertire tutti i neolaureati a questa nuova pratica.
In linea di massima i nuovi docenti, per poter insegnare in inglese, dovrebbero avere un livello B2 (cioè una competenza medio-alta) una volta conseguita la laurea magistrale. Ma chi ce l’ha davvero tra i neolaureati? E tra i docenti attualente impiegati nella scuola? Penso che siano una frazione del totale effettivo.
Allora togliamo la cattedra chi non sa l’inglese! Ma è giusto? Io credo di no perché vorrebbe dire buttare via anni di esperienza pedagogica di docenti solo perché non hanno adeguata conoscenza di una lingua straniera.
2. Ci vogliono madrelingua
Inoltre, bisogna considerare che insegnare in inglese per anglofoni è molto diverso dal fare lezione di lingua inglese.
Nel primo caso è sufficiente avere una buona conoscenza della lingua, dato che i parlanti da te vogliono informazioni prettamente meta-linguistiche ed è sufficiente che ti capiscano senza difficoltà. Nel secondo serve una conoscenza professionale che si acquisisce in anni di esperienza.
Tale conoscenza si può trovare da insegnanti stranieri o da italiani che hanno lavorato per anni all’estero. Ma quanto andrebbe pagata una tale competenza professionale? Molto, fidati!
Non sei convinto? Allora pensa: quante persone madrelingua inglese conosci? E quante con un livello di inglese molto alto?
Ora chiediti:
- Sarebbero in grado di insegnare ad una classe di bambini?
- Sarebbero disposti a mollare il loro lavoro e ad insegnare nella scuola pubblica? Se sì, a quale prezzo?
Quanti risponderebbero di sì alla chiamata del ministero dell’istruzione? Di certo non tutti. E sono già pochi… ecco perché il bilinguismo anglofono non può essere applicato in massa nelle scuole!
L’anglofilo incallito potrebbe sempre controbattere che “fare qualcosa è meglio di non fare niente”. Non cerchiamo la perfezione. Bastano insegnanti con un inglese così così. Si fa sempre a tempo a perfezionarsi. E invece no…
Il rischio, se il bilinguismo non è fatto da madrelingua, è una “maccheronizzazione” dell’inglese. Invece di imparare un inglese professionale utile si crea una sorta di pidgin italoinglese, una versione della lingua con pronuncia imbarazzante e piena di italianismi che sarebbe abbastanza inutile dal punto di vista professionale.
Dunque, il bilinguismo scolastico non è ciò che serve alla lingua inglese se vogliamo mantenerla come mezzo internazionale di comunicazione.
Perché importare un finto bilinguismo se il bilinguismo regionale già esiste?
Come ben noto il bilinguismo ha effetti positivi sulla salute e sull’apprendimento per le lingue (inglese compreso).
Questo fenomeno non riguarda solo le lingue “grandi”, come inglese, francese, russo, arabo, cinese ecc. ma anche le lingue “piccole” come lombardo, veneto, friulano, napoletano e così via.
A questo proposito le statistiche dei nostri “cugini” spagnoli parlano chiaro. La Catalogna e i Paesi Baschi sono le regioni della Spagna dove il bilinguismo regionale è più diffuso. Guarda caso, sono anche le regioni dove la conoscenza dell’inglese è più avanzata!
In Italia sono parlate oltre 30 lingue autoctone, e buona parte del territorio nazionale vede la presenza di almeno un’altra lingua accanto all’italiano. Quindi si può pensare di sfruttarle per migliorare (seppure indirettamente) la conoscenza delle lingue straniere (inglese compreso).
Qualcuno potrebbe dire che “i dialetti si stanno estinguendo e non c’è più niente da fare”
Le lingue regionali sono a rischio d’estinzione, ma sono lontane dalla morte. Chi parla di lingue morte lo dice per autoconvincersi, dato che ci sono tante persone sulla ventina che potrebbero, con poco sforzo, raggiungere in poche settimane di esercizio un livello molto buono nella loro lingua regionale. Ecco i docenti bilingui del futuro.
Si tratterebbe di un investimento produttivo, dato che le lingue regionali crescono molto anche con investimenti iniziali modesti.
Per usare un paragone fatto spesso, è come se restaurare l’Anfiteatro una volta sola fosse sufficiente ad autoripararlo per decenni, e per di più migliorasse la salute dei cittadini della zona!
Siamo seduti su una miniera d’oro e ancora non ce ne siamo accorti! Questa miniera è il bilinguismo regionale.
Non si può ovviamente pretendere che tutti imparino la lingua regionale, ma bisognerebbe dare spunti e possibilità, sia passive, come possibilità di informazione e intrattenimento nelle lingue locali, sia attive, come corsi, libri e app per esercitarsi.
Il “finto bilinguismo” italiano inglese, invece, oltre che inutile per lo scopo desiderato sarebbe molto più costoso da implementare, dato che è da costruire partendo da zero, a differenza di quello regionale che è solamente da recuperare e incentivare.
Introdurre il bilinguismo italiano inglese sarebbe la solita “cosa all’italiana”: costosa, inefficiente e praticamente infattibile. Per fortuna già esiste un bilinguismo vero che può essere implementato per diventare davvero utile a tutta la società.
Conclusioni
In sostanza, abbiamo scoperto che:
- Esiste una necessità di migliorare l’apprendimento scolastico della lingua inglese.
- Tuttavia, trasformare la scuola da monolingue italiano in bilingue italiano inglese sortirebbe un effetto inverso e sarebbe assurdamente costoso
- Il bilinguismo regionale, da recuperare e incentivare, aiuterebbe l’apprendimento linguistico, e quindi anche della lingua inglese, a costi relativamente ridotti
Non esistono lingue regionali, ma solamente dialetti che si stemperano in un gran numero di parlate locali. .. Perché dovrei imparare a scuola una parlata locale che non è la mia? a che pro? se invece la mia parlata la conosco perché dovrei imparala a scuola?
Sciocchezze. Le lingue locali esistono eccome, negarlo è indice di una bassa conoscenza della linguistica. E infatti organizzazioni come L’UNESCO, l’Unione Europea e la stessa Repubblica Italiana ne riconoscono parecchie sul territorio italiano.
Se la tua lingua locale la conosci abbastanza bene buon per te, ma per chi non la conosce a sufficienza è necessaria un’educazione scolastica, così come per tutte le altre lingue del mondo. Anche l’italiano si parla in molte case, allora per quei bambini o adulti non c’è più bisogno di fargli seguire le ore di italiano nelle scuole? Lo studio delle grammatica e dell’ortografia non serve più?
Maurizio, non so di quale luogo tu sia: forse dalle tue parti effettivamente non esisterà alcuna lingua regionale ma ciò non vuol dire che anche altrove “non esistono le lingue regionali”. Piuttosto si può certamente affermare che, in Italia, dove esse esistono, non si fa nulla per farle conoscere e tutelarle (con pochissime eccezioni) e spesso si cerca di occultarne l’esistenza.
Per esempio, in Sicilia, la mia regione, esiste – eccome! – una lingua regionale ma tanto per le istituzioni politiche quanto per il mondo accademico è come se non esistesse. Eppure, nonostante questo disinteresse istituzionale, sono ancora tanti i poeti ed i cantanti che scrivono in lingua regionale, una lingua sovradialettale con tradizione plurisecolare (ci si avvia verso l’800° compleanno) che è difficile da negare.
Io, da siciliano di Palermo, posso esprimermi in dialetto locale o in lingua regionale. Se, ad esempio, devo dire “Palermo ha un porto molto bello!”, se decidessi di esprimermi in dialetto locale (‘dialetto palermitano’) direi: “Palieimmu av’un puoittu troppu bbieddu!”; se invece preferissi esprimermi in lingua regionale (‘lingua siciliana’), direi: “Palermu havi un portu assai beddu!”. Questa seconda opzione è certamente la più consigliata in contesti formali (e, dunque, anche quando si scrive).
Ma, ammesso e non concesso che dalle tue parti non esistesse una lingua regionale, un bilinguismo italiano/dialetto locale avrebbe gli stessi identici effetti positivi del bilinguismo italiano/lingua regionale. Infatti non sono nè il prestigio nè la diffusione territoriale dei due idiomi a determinare certe vantaggiose modifiche strutturali nei cervelli dei bimbi bilingui; è, piuttosto, il fatto stesso di usare due codici linguistici differenti, qualsiasi essi siano.
e perché non il LATINO, allora?
Condivido quanto scrive F.G., tranne che su un punto: la distinzione (che sembrerebbe assumere un valore qualitativo) tra parlari locali e lingua regionale.
A prescindere dal fatto che essa non è applicabile dappertutto (se esistono un siciliano, un piemontese o un friulano comuni, non si dà invece p.es. un lombardo, un emiliano o un pugliese comune), anche le varianti strettamente locali a mio avviso sono a pieno titolo “lingua regionale” e probabilmente il loro uso (e anche insegnamento) in molte situazioni geografiche sarebbe più a portata di mano che quello d’una “koiné”, che avrà certo le sue glorie letterarie ma una scarsa presenza nella realtà della comunicazione.
Il rischio è che i dialettofoni finiscano col convincersi che la loro parlata nativa non sia “vero” siciliano (/ friulano ecc.) e quindi per parlar “bene” passino direttamente all’italiano, che oggi è ormai lingua onnipresente (e quindi psicologicamente prossima, anche se meno glottologicamente prossima d’una koiné regionale), piuttosto che sforzarsi d’apprendere una forma linguistica nuova e comunicativamente superflua..
Del resto farei notare che nelle valli ladine, una delle poche parti d’Italia dove le parlate locali siano ancora abbastanza usate intergenerazionalmente, l’attività di tutela parte proprio dagli effettivi usi locali e il “ladin standard” o “unifiché” non sembra aver riscosso un grante successo.
Giovanni Pontoglio, assolutamente sì: anche le parlate locali (nel mio post definite “dialetti locali”) fanno parte a pieno titolo della “lingua regionale”, essendo espressioni orali di essa. Anzi, in quei territori dove non esiste una koinè regionale, il loro insieme rappresenta esso stesso, da solo, la lingua regionale. Per quanto riguarda la scelta di insegnare la parlata locale oppure la lingua di koinè (dove essa esista), tale scelta può essere determinata da vari fattori che possono essere diversi da regione a regione (dove per ‘regione’ intendo una parte di territorio dove si usa quella data lingua minoritaria).
Bene, equivoco chiarito!
Condivido lo scetticismo sulla possibilità di realizzare un vero bilinguismo italiano-inglese, e credo che il rischio di creare un italoinglese non all’altezza delle esigenze internazionali deriverebbe anche da un altro fattore, oltre alla difficoltà d’avere insegnanti davvero di madrelingua o con competenze pari ai madrelingua:
allo scopo di fare (presunta) bella figura, ci sarebbe una corsa a parlare in (presunto) inglese non solo a scuola, ma in moltissime altre situazioni, mura domestiche comprese, da parte di persone con competenze d’inglese molto limitate. Avremmo così presto bambini “di madrelingua” italoinglese, che poi però dovranno imparare l’inglese “vero” come lingua straniera.
Qualcosa del genere. mi s’obietterà, è avvenuto a suo tempo anche con l’italiano, fatto proprio spesso incautamente e pasticciatamente da persone che molto meglio si sarebbero potute esprimere nel loro dialetto natio: è il noto fenomeno dell’italiano popolare regionale, che però è più che altro un fenomeno di transizione verso un italiano più vicino allo standard. Non sarebbe così anche con l’inglese?
No, risponderei, perché il confronto zoppica:
– a) anche nell’era dell’Italia prevalentemente dialettofona c’era comunque una classe colta capace d’usare in modo abbastanza corretto ed efficace la lingua nazionale, la quale ha potuto fare da modello,
– b) d’altra parte anche la lingua standard s’è modificata, ha accolto dialettalismi e abbandonato arcaismi, insomma ha accettato qualche compromesso coll’italiano popolare-regionale, Trovo invece molto difficile che una specifica varietà italiana d’inglese possa influenzare lo standard inglese internazionale, le cui redini sono in ben altre mani.
Inoltre il bilinguismo è, direi per definizione, una condizione precaria, che richiede una forte consapevolezza individuale e collettiva perché prima o poi una delle due lingue non soppianti l’altra (fenomeno che in genere si verifica gradualmente e proprio per questo più insidiosamente): tale rischio è tanto maggiore quanto lo è la differenza di prestigio tra le due lingue concorrenti, e il senso d’inferiorità con cui è già oggi percepita la lingua italiana rispetto a quella inglese crescerebbe a dismisura se si ampliassero ulteriormente gli spazi, già significativi, che l’inglese occupa in Italia.
Dove ho qualche perplessità invece è sull’asserzione che il bilinguismo italiano / lingua regionale (o locale) – bilinguismo che anch’io credo vada promosso – sia proprio così a portata di mano come l’autore dell’articolo sembra credere. Qui forse c’è un eccesso d’ottimismo.
Anche in quelle parti d’Italia dove si ha, a giudicare da inchieste (peraltro per molti versi di dubbia interpretazione), una percentuale significativa di dialettofoni anche nella popolazione più istruita e nelle generazioni non ancora anziane (non è purtroppo il caso della Lombardia, da cui scrivo!), e quindi anche verosimilmente tra gl’insegnanti attualmente in servizio, occorrerebbe comunque un serio lavoro di FORMAZIONE, perché altra cosa è “sapere” un dialetto, altra saper insegnare “in” dialetto e altra ancora saper insegnare “il” dialetto.
La regione basca in Spagna fece in effetti qualcosa del genere, e in grande stile, compreso l’insegnare il basco agl’insegnanti monolingue castiglianofoni (che erano poi la grande maggioranza nella regione!), in modo da rendere possibile il bilinguismo scolastico, e ciò con buoni risultati.
Ma quanto saremmo disposti noi italiani, così diffidenti verso ogni uso del denaro pubblico che non sia il versarlo direttamente nelle tasche dei cittadini (non dico altro perché non voglio fare della polemica politica che qui sarebbe fuori luogo) ad investire in questo campo?
Per via degli stessi problemi che la l’inglese: mancano insegnanti madrelingua. Anzi, in questo caso mancano proprio i madrelingua.
E se anche fosse un italoinglese che problema ci sarebbe? Sarebbe comunque meglio rispetto al non saperlo proprio. Ci avvicinerebbe molto. Scusatemi gli spagnoli vanno così fieri della loro lingua che sono abituati a cambiare le parole straniere trasformandole in spagnole, c’é qualcosa di male in questo? Sarebbe comunque un modo per rendere onore alle nostre origini latine.
Un’altra cosa, i nigeriani parlano un inglese che si differenzia parecchio dall’inglese standard eppure sono capaci di parlare con gli inglesi. Se succedesse così anche all’italiano non lo considererei un problema.