Quando si parla di iniziative pro dialetto compiute da movimenti identitari e regionalisti (Lega al nord, neoborbonici al sud), salta sempre fuori il genio della situazione con l’accusa:
Stanno provando a creare una linea tra “autoctoni” e “immigrati” per discriminare chi viene da fuori!
Molto onestamente, nelle mie attività come admin di Impariamo la lingua lombarda ho avuto a che fare anche con movimenti politici del genere e non ho mai notato questa carica discriminatoria verso chi non parla la lingua locale.
Anzi, gli attivisti sono contenti se i forestieri si interessano alla lingua locale!
Non escludo tuttavia che qualcuno possa usare la lingua come strumento di divisione. A questo proposito, ti propongo 2 fatti:
Primo fatto: una lingua riconosciuta è super partes
Il primo fatto è che la tutela linguistica, essendo intimamente connessa con la società e la cultura locale, è una cosa seria e come tale va trattata. Ha bisogno un riconoscimento istituzionale.
Ciò non vuol dire però limitarsi a riconoscere una lingua. Non è che per magia un dialetto viene “linguificato” dallo Stato e la gente ricomincia a parlarlo.
Lo sanno bene i ragazzi dell’associazione calabrese Jalò Tu Vua, che tutela il greco di Calabria. Sono ormai 20 anni che questa antica lingua è riconosciuta dallo Stato italiano, ma questo non ha frenato l’emorragia di parlanti.
Consci di ciò, i ragazzi di Jalò Tu Vua hanno organizzato To ddomadi greko, una iniziativa aperta a tutti (anche non grecofoni e anche non calabresi!) che serve davvero a dare un futuro alla lingua greca in Italia. Ora, subito, senza aspettare che arrivi qualche funzionario da Roma a dir loro di parlare greko!
Questa magistrale iniziativa aiuta a rendere la lingua superpartes, mettere le basi per la tutela e a definire il campo d’azione nel pubblico delle associazioni volontarie.
Ma è anche vero che senza un riconoscimento da parte dello Stato la situazione sarebbe stata molto, molto più difficile.
Senza lo Stato che, tramite il riconoscimento, fa passare l’idea che il greco è un patrimonio comune da preservare, il campo sarebbe stato lasciato libero ai falsi esperti di dialetto oppure a gruppi politicizzati interessati a fare del greco di Calabria una bandiera identitaria.
Questo sarebbe il meno peggio! Infatti, avrebbero avuto molto peso le polemiche di persone contrarie al greko perché “chi viene da fuori non lo capisce”. Cosa che purtroppo è all’ordine del giorno quando si parla di lingue non riconosciute dallo Stato italiano…
Secondo fatto: chi non accetta una lingua, la usa come strumento di divisione
Si litiga sempre in due. Allo stesso modo, quando c’è un tema “identitario”, questo può essere strumentalizzato in due modi: facendolo proprio oppure opponendosi strenuamente ad esso.
Questo è proprio il caso della lingua veneta. E’ vero, alcuni indipendentisti veneti la strumentalizzano. Ma chi la strumentalizza veramente, rendendola uno strumento di divisione? Chi si oppone a qualsiasi tutela della lingua.
Ad esempio, a inizio 2019 c’è stata una forte polemica in Veneto riguardo la proposta di istituire dei corsi di lingua veneta nelle scuole.
Beninteso, si tratta di semplici corsi di lingua per dare agli alunni un’infarinatura sulla lingua del loro territorio, promossi per altro da associazioni con fini dichiaratamente apolitici.
Ebbene, nonostante le premesse, c’è gente pronta a fare le barricate: propaganda leghista a scuola, attentato all’integrazione, pericolo secessionista!
Eppure nessuno vuole cacciare dalle classi gli Esposito, i Mahjid e i Gioka. Gli unici a escludersi sono quelli che si oppongono a questi corsi, minacciando di ritirare i propri figli da scuola nell’ora di lingua veneta.
Insomma, quelli che temono l’esclusione sono i primi ad escludersi!
Ma il buon senso dov’è?
Guardiamo la realtà per ciò che è: la lingua è un bene di tutta la società.
Se si teme davvero l’esclusione, buon senso vorrebbe che si rendesse la lingua superpartes.
Ciò vuol dire offrire un’alternativa alle iniziative della parte politica avversa o, ancor meglio, accordarsi con l’altra parte per un progetto apolitico, togliendo dalle mani dei concorrenti un argomento di propaganda.
Questo è ciò che succede nell’accogliente Catalogna, spesso citata come esempio virtuoso da contrapporre ai cattivi “leghistacci” che usano il dialetto per “marcare il territorio”.
Sembra strano, eppure anche la lingua catalana ha avuto la sua fase “veneta”.
Infatti, il movimento catalanista fino agli anni ’30 faceva manifesti del genere:
Col tempo poi il movimento identitario è cresciuto e ha unito tutti, dalla destra conservatrice all’estrema sinistra, dall’unionismo all’indipendentismo.
Ma cosa sarebbe successo senza una presa di posizione comune e istituzionale?
Probabilmente il catalano avrebbe continuato ad essere visto come un mezzo di separazione, caratterizzandosi come idioma specifico di una fazione politica. Oggi in Catalogna si parlerebbe quasi solo spagnolo, e i Catalani non avrebbero quello straordinario laboratorio linguistico e tutto il mercato di cui oggi possono godere grazie alla lingua catalana.
Ce l’hanno fatta loro. Dunque perché non potremmo farcela anche noi?