Il Comitato per la Salvaguardia dei Patrimoni Linguistici si propone di valorizzare e di cercare di far riconoscere a livello istituzionale sia quelli che in Italia vengono considerati “dialetti” (che, come ribadito altre volte, escludendo la Toscana e l’Italia centrale sono vere e proprie lingue regionali: quindi il CSPL è contrario al senso sociolinguistico che in Italia viene dato al termine “dialetto”), sia le lingue minoritarie, le quali, pur essendo riconosciute dalla legge 482/1999, soffrono ancora molto – a parte alcune eccezioni – a causa del fatto che quella legge viene spesso applicata poco e male.
Il Comitato si propone di essere di carattere nazionale; tuttavia, per ora il maggiore attivismo si ha nella parte settentrionale del Paese (specialmente tra Lombardia e Piemonte), mentre all’interno del sito del CSPL l’unico meridionale della redazione (un reggino), al momento, è il sottoscritto.
Credo che il Comitato, per essere veramente un movimento di carattere nazionale, debba cercare di capire un po’ della situazione sociolinguistica del Meridione, e quindi nei limiti del possibile cercherò di parlarne. Ovviamente la mia non vuole essere una critica nei confronti del Comitato, bensì un aiuto. Non ho la pretesa di trattarne tutti gli aspetti, né dire che siano universali all’interno del Meridione poiché il Sud non è – a differenza di quanto pensino alcuni – uniforme dal punto di vista sociale, culturale ed economico. Inoltre, non ho neanche la pretesa di dire verità assolute sulla questione: questo è solo un articolo d’opinione ricavato in base alle mie esperienze e alle mie letture (pertanto posso sbagliarmi, almeno su certi punti).
Quindi, ciò che sto per dire è liberamente criticabile, pur nei limiti del rispetto reciproco e della critica costruttiva: direi quindi che il vero scopo del presente articolo è stimolare e fornire spunti alla riflessione.
Ecco, quindi, qualche mia considerazione in sei punti:
Vitalità
Al Sud le lingue regionali generalmente sono più vive. Nella mia città (Reggio Calabria), secondo i dati 2011-2013 dell’Università per stranieri “Dante Alighieri” inerenti la dialettofonia tra la popolazione giovanile, la parlata locale veniva utilizzata – esclusivamente o alternata all’italiano – dal 73% degli intervistati (anche se il suo utilizzo è meno comune tra gli studenti universitari), e soltanto l’1% ha dichiarato di non averne neanche una competenza passiva.
Più in generale, secondo i dati Istat del 2006, in contesti informali l’uso esclusivo della parlata locale era del 31,5% in Calabria, del 28,9% in Basilicata, del 25,5% in Sicilia, del 24,2% in Molise e del 24,1% in Campania (a fronte di una media nazionale del 16%); mentre, sempre secondo i dati Istat del 2006, l’alternanza di questa con l’italiano era del 48,1% in Campania, del 47,9% in Puglia, del 46,2% in Sicilia e del 42,3% in Molise (la media nazionale era del 32%): nel Nord, a reggere il confronto con le regioni meridionali solo il Veneto e il Trentino, nei quali in contesti informali l’uso esclusivo della parlata locale era rispettivamente del 38,9% e del 38,5%.
Politica
Al Sud non si fa un uso politico dei “dialetti” (se escludiamo gli autonomisti e gli indipendentisti neoborbonici e siciliani). L’uso più diffuso della lingua regionale e l’assenza, nelle regioni meridionali, della Lega Nord – la quale è certamente molto più influente nella politica italiana rispetto ai neoborbonici e ai siciliani – fa sì che la lingua regionale non venga associata ad un particolare partito politico o ad un certo tipo di elettorato.
Nord vs Sud
Nella sezione “Che cos’è il CSPL?”, c’è scritto:
Parlare in dialetto non è assolutamente sinonimo di ignoranza o ristrettezza economica. Questo è vero a maggior ragione al giorno d’oggi. Infatti, i linguisti hanno dimostrato che nei momenti di erosione linguistica, cioè quando una lingua è in via di estinzione, le persone che parlano l’idioma minoritario sono in genere ricche ed istruite. Il motivo è semplice: questa categoria non teme di essere giudicata inferiore. Chi invece è povero e scarsamente istruito deve dimostrare di fare parte della società “bene” e quindi finisce per utilizzare una sola lingua: la più prestigiosa.
Sappiamo tutti che in media l’economia del Sud è più povera di quella del settentrione. Pertanto, il fatto che al Nord (grazie ad esempio al maggiore sviluppo economico e all’immigrazione da altre regioni) si sia affermato maggiormente l’uso della lingua italiana ha fatto sì che le lingue regionali del Meridione – pur avendo un maggior numero di locutori rispetto a quelle del Nord Italia – siano generalmente associate all’arretratezza economica e culturale: si può dire quindi che anche dal punto di vista linguistico ci sia contrapposizione tra il Nord industrializzato – e maggiormente italofono – e il Sud.
Questo spiega, ad esempio, il fatto che molti emigrati dal Sud – specialmente in Lombardia – cerchino rapidamente di fare proprio l’italiano regionale del posto, e in particolar modo quello milanese, considerato tra gli “italiani regionali” più prestigiosi del Paese a causa del ruolo economico di Milano: questo atteggiamento è ben presente nella satira e nella comicità meridionali, come si vede ad esempio all’interno di questo sketch del noto comico palermitano Sasà Salvaggio, tratto dalla trasmissione Insieme – diciamo l’equivalente siciliano di Zelig, e presentata allora da Salvo La Rosa – sull’emittente catanese Antenna Sicilia.
In esse è ben presente anche lo stereotipo del settentrionale raffinato, attento alla linea, freddo e incapace di empatia, e italofono contrapposto a quello del meridionale dialettofono, buzzurro, goloso, “alla mano”.
Segnaletica
Al Sud, non essendo presente la Lega Nord, non è mai stata promossa la segnaletica nelle lingue locali – fanno ovviamente eccezione le minoranze linguistiche rientranti nella legge 482/1999 (e neanche tutte: ne ho esperienza personale con la mia città natale, la quale per legge li dovrebbe avere anche in greco…) – , né, ovviamente, “battaglie dei cartelli”.
Autonomia rispetto all’italiano
Ancora più che nell’area gallo-italica (dove pure è abbastanza creduta), al Sud – anche a causa del fatto che l’attivismo linguistico sia minore – è diffusa la convinzione del fatto che le parlate locali non siano sistemi linguistici autonomi e compiuti rispetto all’italiano standard: a differenza, infatti, del dominio linguistico gallo-italico (dove, sebbene non ci sia unanimità da parte degli studiosi, c’è una rivendicazione di autonomia linguistica anche sulla base dell’appartenenza – diversamente dall’italiano, ed esattamente come il francese, il catalano o lo spagnolo – alla Romània occidentale), le varietà meridionali appartengono inequivocabilmente al sottogruppo italo-romanzo (e, quindi, alla Romània orientale) delle lingue neolatine.
In Sicilia, in particolare, è molto diffusa la credenza secondo cui la lingua italiana sarebbe nata in Sicilia con la Scuola Poetica Siciliana – se si cerca su Google “Dante perde la paternità”, potete constatare voi stessi la diffusione di questo mito attraverso articoli su giornali online e blog – , facendo confusione tra la prima lingua letteraria in volgare nata in territorio italiano e la letteratura in lingua italiana, confusione che è dovuta anche al fatto che i manoscritti dei poeti della Scuola ci sono giunti soprattutto in traduzione toscana (l’unica poesia in lingua originale giunta sino a noi è Pir meu cori alligrari, composta dal messinese Stefano Protonotaro, vissuto al tempo di Manfredi figlio di Federico II).
Definizione linguistica
Il problema della lingua napoletana e della lingua siciliana: come si è scritto nell’articolo Cosa intende l’UNESCO per “lingua siciliana” e “lingua napoletana”? , l’UNESCO intende con queste due espressioni i gruppi che la tradizione dialettologica italiana definisce, rispettivamente, come:
- gruppo dialettale (alto-)meridionale (Lazio meridionale, Marche meridionali, gran parte di Abruzzo e Puglia, Molise, Campania, Basilicata, Calabria settentrionale);
- gruppo dialettale siciliano/meridionale estremo (Sicilia, Calabria centro-meridionale, Salento).
Quindi, secondo la definizione che ne dà l’importante organizzazione internazionale, la lingua siciliana e la lingua napoletana sarebbero idiomi trans-regionali; tuttavia, le regioni che coprono l’estensione dei due gruppi hanno sviluppato al loro interno identità regionali distinte, pertanto ad esempio ad un barese o ad un abruzzese riuscirebbe difficile dire di “parlare napoletano”, così come a Lecce saranno probabilmente un pugno di mosche ad inferire di essere siculofoni: sicuramente la gran parte degli abitanti del Sud non è consapevole della definizione dell’UNESCO (fatta su base squisitamente linguistica e non sociolinguistica, non tenendo quindi in considerazione i sentimenti e i campanilismi della popolazione), ma anche coloro che la conoscono, linguisti e non, tendono a dare voce alle variazioni e alle micro-variazioni per tentare di dimostrare le peculiarità del proprio dialetto locale e di dimostrare che, ad esempio, il gruppo (alto-)meridionale non può – per quanto composto da parlate simili – essere riunito in una medesima lingua (ovviamente gli unici a non farlo sono gli attivisti napoletani e siciliani, i quali però da un lato sono consapevoli del riconoscimento dell’UNESCO, ma dall’altro prendono in considerazione solo, rispettivamente, il dialetto comunale di Napoli e i dialetti isolani, escludendo per esempio Bari o la Calabria): è un po’ come avviene in Lombardia con l’erronea negazione di una lingua lombarda sulla base dei dialetti delle singole città o dei singoli paesi della regione, solo che in questo caso la differenza è anche tra macro-aree regionali e non solo tra comuni.
Se un giorno dovesse sorgere seriamente una questione della lingua, come considerare ad esempio il siciliano?
Negare il dato UNESCO e, quindi, l’unità della lingua tra Sicilia, Calabria centro-meridionale e Salento, creando pertanto due o tre lingue diverse all’interno del gruppo meridionale estremo?
Creare uno standard – anche solo ortografico – comune?
Oppure fare del siciliano una lingua policentrica, ovvero una lingua con due o tre standard diversi pur nel riconoscimento dell’appartenenza alla medesima lingua (un po’ come accade tra catalano e – escludendo i blaveristi – il valenziano)?
Questo è solo l’inizio: ripeto che ciò che ho scritto può essere sbagliato in alcuni punti (i quali a volte possono intersecarsi), ma spero serva per una maggiore consapevolezza del CSPL verso il Meridione.