L’Italia non è l’unico paese a definire “dialetti” quelle che sono vere e proprie lingue regionali imparentate con la lingua ufficiale.
Questa è infatti una situazione comune in diverse parti del mondo: ovviamente però bisogna tenere conto dei vari contesti locali; pertanto, non si può parlare di una perfetta equivalenza.
Qui di seguito elencherò alcuni tra i casi più celebri.
Grecia
I linguisti greci, generalmente, distinguono tra ιδίωμα [pr. idìoma] e διάλεκτος [pr. diàlectos]: secondo la definizione che ne dà uno dei più importanti dizionari monolingui del greco moderno (ovvero il celebre Λεξικό της Κοινής Νεοελληνικής [Istituto di Studi Neogreci, Salonicco, 2009]) – tradotta in italiano dal sottoscritto – , il primo termine designa una varietà locale di una lingua, con piccole differenze dalla lingua comune dal punto di vista della fonologia, della morfologia o del lessico, mentre il secondo è un ιδίωμα che ha una grande estensione o che ha grandi differenze rispetto alla lingua comune dal punto di vista della pronuncia, della morfologia, della sintassi e del lessico, la quale però non è considerata lingua separata.
(Quindi διάλεκτος è un iponimo di ιδίωμα, e pertanto, anche se c’è una differenza di sfumatura, il secondo termine può essere usato anche nel senso del primo, come dimostrano ad esempio le due opere del linguista greco Anastasios Karanastasis inerenti il greco d’Italia – che, come si vedrà più sotto, appartiene al gruppo dei διάλεκτοι – , e cioè la Γραμματική των Ελληνικών Ιδιωμάτων της Κάτω Ιταλίας [Accademia di Atene, Atene, 1997] e l’Ιστορικόν λεξικόν των Ελληνικών Ιδιωμάτων της Κάτω Ιταλίας [Accademia di Atene, Atene, 1984-1992]. Tuttavia, non può accadere il contrario: un ιδίωμα vero e proprio non può essere definito διάλεκτος.)
Al gruppo degli ιδιωμάτα [pr. idiomàta] appartengono, sostanzialmente, la gran parte delle varietà neogreche parlate nella Grecia continentale e insulare.
Al gruppo dei διαλέκτους [pr. dialèktus] appartengono invece:
- il greco d’Italia,
- il cipriota,
- il pontico,
- lo zaconico,
- il cretese,
- il cappadocico,
- il romaniotico o ievanico (il giudeo-greco),
- il mariupolitano (varietà neogreca parlata a Mariupol, in Ucraina),
- l’himariota (neogreco di Himara, città del sud dell’Albania).
Il gruppo dei διάλεκτοι [pr. diàlecti] comprende però varietà che l’ISO considera invece lingue separate dal neogreco ufficiale: è anche per questo che alcuni linguisti parlano di lingue elleniche.
Ad esempio lo zaconico – parlato nel sud del Peloponneso, il quale ha la particolarità di discendere, unico tra tutte le varietà neogreche, dall’antico dialetto dorico anziché dalla koiné ellenistica su base ionico-attica – , che possiede il codice tsd.
Ma anche il pontico – la varietà neogreca usata dai greci del Mar Nero (i quali oggi si trovano in maggioranza in Grecia dopo lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia del 1923), ritenuta essere la varietà oggi più distante dal neogreco standard, ed è anche l’unica a parte il greco ufficiale a possedere la propria edizione di Wikipedia – , il cui codice ISO è pnt; il cappadocico (cpg); e il romaniotico (yej).
Il greco d’Italia, il cretese, il cipriota, l’himariota, e il mariupolitano, invece, non hanno un loro codice ISO 639-3, e quindi rientrano in quello greco (ell), sebbene Ethnologue (riprendendo Zamponi [1992]), affermi che probabilmente anche per il greco d’Italia si tratterebbe di una lingua separata.
Cartello bilingue zaconico/neogreco
standard nella città di Leonidio, nel
Peloponneso.
Le scritte recitano: La nostra lingua
è lo zaconico. Chiedete affinché ve lo
dicano.
Giappone
Il governo giapponese tratta tutte le varietà non standard legate al giapponese standard come “dialetti”.
Tuttavia, tra queste rientrano anche le lingue ryukyuane – parlate nelle isole Ryūkyū, oggi divise tra le prefetture di Okinawa e Kagoshima – , le quali non sono intelligibili col giapponese ufficiale: sia le lingue ryukyuane che le diverse varietà di giapponese (compresa la lingua standard, ovviamente) appartengono al gruppo delle lingue nipponiche.
La ragione di questa differenziazione sta nel fatto che per lungo tempo le isole Ryūkyū hanno avuto una storia separata da quella del resto del Giappone (nonché, ovviamente, dalla grande distanza geografica rispetto al resto dell’arcipelago nipponico e dalle sedi del governo centrale). Ad esempio, dal 1429 fino al 1879 la maggior parte delle isole Ryūkyū fu riunito nel Regno omonimo, il quale fu vassallo della Cina e, dal 1609, anche del daimyō (signore feudale giapponese) di Satsuma, fino alla conquista del Regno da parte dell’impero del Giappone.
Secondo lo yamatologo Patrick Heinrich [2005], le lingue ryukyuane si separarono dal giapponese comune poco tempo prima della comparsa dei primi testi giapponesi, e cioè il Kojiki (712) e il Nihon Shoki (720).
Esse sono inintelligibili non solo col giapponese standard, ma anche tra di esse, e tra queste – che possiedono tutte un loro codice ISO – possiamo annoverare la lingua di Okinawa, lo yonaguni, il kunigami, e lo yaeyama.
Tuttavia, come detto, per il governo giapponese rimangono dei “dialetti”, e dopo che il Regno delle Ryūkyū venne incorporato nello Stato giapponese, i bambini delle scuole dell’ex-Regno (così come quelli di altre aree giapponesi periferiche) furono a lungo soggetti alla punizione della tessera del dialetto (方言札[rōmaji, sistema Hepburn = hōgen fuda]), una punizione – simile a quella in uso in altri paesi, come la Francia – che consisteva nel ricevere questa tessera se si veniva sorpresi a parlare una lingua ryukyuana o comunque una varietà non-standard di giapponese durante l’orario scolastico, e di indossarla fino a quando un compagno non avesse fatto la stessa cosa: l’alunno che l’avesse avuta con sé alla fine delle lezioni sarebbe stato punito.
Esempio di hōgen fuda
Cina
La Cina ha avuto per molto tempo una situazione simile a quella greca o a quella dell’Europa latino-germanica medievale e rinascimentale, ovvero una contrapposizione tra una lingua classica colta (che in Cina – ma anche in altre parti dell’Estremo Oriente – equivaleva al cinese dell’epoca degli Stati Combattenti e delle dinastie Qin e Han [V° sec. a.e.v.-II° sec. e.v.], usata nel Regno di Mezzo come lingua scritta ufficiale fino alla caduta della dinastia mancese dei Qing agli inizi del XX° secolo) e le lingue vernacolari sviluppatesi e differenziatesi a seguito di vicende storiche e cause geografiche.
Tuttavia, già dai tempi della dinastia Ming (1368-1644) nella corte imperiale era d’uso il mandarino – cioè la varietà della Cina settentrionale, la quale era tradizionalmente la sede del potere – , usata appunto dai “mandarini” (vale a dire i funzionari di corte), fatto che fece sì che venisse presa a modello come lingua vernacolare comune (anche se durante la dinastia Qing si passò dalla varietà di Nanchino a quella di Pechino), in particolar modo dalla caduta del regime imperiale nel 1912.
Accanto al mandarino le altre lingue sinitiche sono lo yue (cantonese), il wu, l’hakka, il min, lo xiang, il gan; neanche a dirlo, dal governo della Repubblica Popolare Cinese, così come a Taiwan e a Singapore, sono trattati come “dialetti”: la politica dei tre paesi nei confronti delle altre varietà sinitiche è molto aggressiva – con tanto di inviti espliciti e pubblicità e poster che promuovono l’uso del mandarino come “lingua civilizzata” – , al punto che a Singapore a partire dal 1979 si promuove la Speak Mandarin Campaign, ovvero una campagna che si prefigge lo scopo di diffondere e di far adottare il mandarino ai cinesi di Singapore, i quali sono originari soprattutto di zone non mandarinofone.
Tuttavia non tutti accettano lo strapotere del mandarino.
Ad Hong Kong il cantonese è la lingua maggiormente utilizzata anche dal governo locale – sebbene il mandarino, con la riunificazione con la Cina avvenuta nel 1997, si stia affermando anche lì – , tanto da rappresentare la seconda lingua sinitica in ordine di importanza (si studia anche nelle università straniere, e sono disponibili manuali per impararlo, manuali che però non esistono in lingua italiana: forse ad influire è anche il tradizionale atteggiamento italiano verso i “dialetti”), ed è diventato un simbolo dell’identità di Hong Kong rispetto a quella del resto della Cina.
La Speak Hokkien Campaign – l’hokkien è una varietà di min – , nata in evidente contrapposizione alla campagna singaporiana, promuove il recupero della lingua: la campagna è nata da alcuni cinesi min dello stato malese di Penang.
Qui due video – sottotitolati – della Speak Hokkien Campaign, che mettono l’accento sull’hokkien, sulle altre lingue sinitiche minoritarie (e il pericolo che – assieme al min – corrono di fronte al mandarino), e sull’importanza del multilinguismo nel mondo. Il secondo, in particolare, afferma le stesse cose divulgate dal CSPL, dimostrando anche di dover affrontare alcuni problemi analoghi alla situazione italiana (ad esempio l’hokkien visto solo come lingua per “parolacce”).
Mondo arabo
E’ nota la diglossia del mondo arabofono: all’arabo ufficiale (oggi una versione leggermente modernizzata dell’arabo classico, conosciuta in inglese come Modern Standard Arabic [MSA]) – usato però solamente nelle occasioni ufficiali, nella stampa, e in pochi altri casi – si affiancano le varietà parlate.
A parte alcuni casi, influenzati dal nazionalismo locale, come quello del libanese Said Akl (1912-2014), non si è mai promossa la separazione dell’arabo parlato da quello scritto (sebbene l’arabo parlato non sia intelligibile a chiunque conosca solo il MSA) a causa di diversi fattori come la diffusa convinzione – da parte degli arabofoni – che la propria varietà di arabo parlato sia la più vicina all’arabo classico [Mion 2007], e, ovviamente, il ruolo di quest’ultimo nella religione islamica.
Corea del Sud
Al largo del Mar Cinese Orientale c’è l’isola di Jeju, appartenente alla Corea del Sud.
La lingua dell’isola, che a poco a poco sta venendo rimpiazzata dal coreano standard, è considerata un dialetto coreano da parte del governo sudcoreano (e anche degli stessi parlanti), ma nella realtà è abbastanza distinto da poter essere considerata una lingua separata, a differenza delle altre parlate coreane che sono abbastanza vicine tra loro da avere una buona mutua intelligibilità.
Ha infatti un proprio codice ISO (jje), e assieme al coreano peninsulare (nonché alle lingue degli antichi regni coreani come Silla – dal cui idioma ebbe origine il coreano moderno – o Goguryeo) appartiene alle lingue coreaniche.
L’isola di Jeju (in rosso)
Buon giorno Giuseppe,
devo dire che non capisco il tuo attacco nei confronti della definizione di “dialetto” data in Italia agli idiomi derivanti dal latino.
In primo luogo, bisogna dire che queste di “lingua”, “idioma” e “dialetto” sono tutte definizioni arbitrarie, ma proprio per questo bisogna usare un codice comune che identifichi ciò che è lingua del paese da ciò che non lo è, ciò che fa parte di una famiglia linguistica e ciò che non ne fa.
“Dialetti”, in Italia, come sai meglio di me, sono definiti gli idiomi fratelli derivati, con differenze su base regionale, dal latino. Queste varianti, importantissime tra loro e degne di memoria e d’uso, sono esiti locali di un’unica traslazione culturale e linguistica, quella dell’italiano. Il quale è insieme la media linguistica dei dialetti che sviluppano e conservano la stessa essenza culturale, quella “italiana”, e la lingua illustre che nasce dalla selezione, in ogni variante regionale, di ciò che è generale e universalizzabile, tralasciando i localismi e i provincialismi, per fondare una lingua che possa aderire a ogni aspetto della realtà, con un vocabolario compiuto, completo, oggettivo. Che poi questo non sia avvenuto interamente nel pratico, e che questo processo sia stato fermato da un linguista e scrittore sopravvalutato come il Manzoni, che ha privilegiato il fiorentino, è un discorso che riguarda la classe dirigente italiana, da sempre inadeguata, e non la storia la cultura l’essenza italiana, che è quella del siculo-toscano illustre di Giacomo, Guido, Lapo e Dante.
https://patrimonilinguistici.it/dialetto-definizione/ : rimando a quest’articolo perché affronta la questione in maniera ordinata e quasi esaustiva.
A quest’articolo aggiungo il fatto che secondo l’Atlas of the World’s Languages in Danger dell’UNESCO (che puoi consultare gratuitamente a questo sito: http://www.unesco.org/languages-atlas/ ) – il quale per ogni lingua fa uso dell’ISO 639-3, un codice emanato dall’International Organization for Standardization (la più importante organizzazione mondiale per la definizione di norme tecniche), usato per la classificazione delle lingue umane – la maggioranza dei “dialetti italiani” sono lingue vere e proprie, distinte dall’italiano: piemontese, lombardo, veneto, ligure, emiliano, romagnolo, napoletano (definizione nella quale rientrano i “dialetti meridionali”) e siciliano (nel quale rientrano invece i “dialetti meridionali estremi”), ai quali vanno aggiunti sardo e friulano che fanno parte delle lingue protette dalla legge 482/1999. Eccezioni sono il toscano e i dialetti mediani, considerati invece varietà della lingua italiana.
Oltre all’UNESCO e all’ISO, a definire “lingue” i “dialetti italiani” è la “Carta europea delle lingue regionali e minoritarie” promulgata dal Consiglio d’Europa nel 1992, la quale all’articolo 1 afferma che per «lingue regionali o minoritarie» si intendono le lingue:
i) usate tradizionalmente sul territorio di uno Stato dai cittadini di detto Stato che formano un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione dello Stato; e
ii) diverse dalla(e) lingua(e) ufficiale(i) di detto Stato; questa espressione non include né i dialetti della(e) lingua(e) ufficiale(i) dello Stato né le lingue dei migranti.
Siccome la maggioranza dei “dialetti italiani” non è figlia del toscano ma con esso, come hai detto tu, del latino, ne consegue che la maggioranza dei “dialetti italiani” sono in realtà vere e proprie lingue regionali.
L’italiano standard è su base fiorentina e su questo non ci piove: l’apporto dei “dialetti” è soltanto lessicale e non intacca la grammatica che resta toscana (discorso diverso, invece, per gli “italiani regionali”). E’ errato, a mio avviso, dire che tutti i “dialetti italiani” rientrino nell’italiano; sarebbe più corretto dire – ma il discorso è almeno in parte diverso per le parlate gallo-italiche – che i “dialetti italiani” appartengono, accanto al toscano, al sottogruppo italo-romanzo delle lingue neolatine, esattamente come appartengono all’ibero-romanzo il castigliano, il portoghese, il galiziano, il catalano, l’asturiano, l’aragonese.
E’ vero che “lingua” e “dialetto” sono definizioni arbitrarie, ma dire che un codice linguistico è “dialetto” implica che, a livello istituzionale, quel codice non merita tutela da parte dello Stato. La distinzione è molto spesso politica: ai tempi del franchismo il catalano veniva definito un “dialetto del castigliano”, perciò dire che un codice è un “dialetto” equivale a denigrarlo e a cercare – attivamente o passivamente – di estirparlo.
Mi dispiace, non concordo con questa visione. Usare la parola “dialetto” non equivale a estirpare i dialetti, così come parlare di “lingue” non equivale a salvarli. Si tratta di usare un termine, che per essere sostituito con un altro dovrebbe essere giudicato inadeguato a rappresentare la realtà dell’oggetto (su basi etimologiche e semantiche e non per il giudizio che può darne l’Unione Europea, la quale tra l’altro certifica l’esistenza di lingue e al contempo le condanna all’oblio, impedendo ad esempio di registrare brevetti in italiano). L’italiano è nato come lingua unificante tra gli idiomi che mantengono caratteristiche linguistiche, storiche e culturali molto vicine tra loro, tanto da essere identificati in una nazione (cioè, in un popolo, in un gruppo di “nati” nella stessa famiglia). Dire che sono lingue concorrenti all’italiano non solo sminuisce il valore dell’italiano come lingua media, illustre e unificante tra questi idiomi (italiano che, a mio avviso, oggi è in pericolo tanto quanto i “dialetti”), ma equivale a dare una diversità culturale che questi idiomi (con eccezione di alcuni) tra loro a mio avviso non hanno. Inoltre la “lingua” è un oggetto linguistico autonomo, tendenzialmente universale e autarchico, cioè bastante a sé stesso nel valutare la realtà. Questo mi è stato almeno insegnato. Con quanti idiomi regionali italiani si può parlare di letteratura, filosofia, scienza, senza mutuare termini dal latino o dall’italiano? Quante di queste regioni, storicamente, per le loro letterature hanno adoperato gli idiomi locali, o più tosto non hanno tentato (da Sannazaro all’Ariosto) di costruire una lingua che fosse ulteriore a essi?
Con questo, come tu sai conoscendomi, non sminuisco assolutamente l’importanza di questi idiomi; studiando il greco antico, abbiamo modo di rapportarci con una civiltà che di “dialetti”, così chiamati, ne ha avuti molti, spesso tra loro alquanto differenti: essa li ha sempre valorizzati, facendone di ognuno il linguaggio di una determinata forma letteraria, senza per questo trovare modo di negare l’unità che c’era tra essi e rispetto ai non greci. Detto questo, volevo solo precisare che l’importante è capirsi, e non negare la vicinanza storica e culturale degli idiomi che hanno fatto la storia d’Italia.
EC: “l’importante è capirsi” lo intendevo rispetto all’uso, arbitrario, di “lingua” o “dialetto” rispetto a un idioma.
Non ho detto che la lingua sia automaticamente tutelata in quanto tale, bensì che un codice linguistico definito “dialetto” non viene mai protetto dalle istituzioni proprio perché considerato in quel modo; basti pensare, ad esempio, al sardo e al friulano che – anche se ancora molti si riferiscono ad essi come “dialetti” – sono ora considerati lingue perché lo Stato italiano li ha annoverati tra le minoranze linguistiche protette dalla legge 482/1999.
Definire un codice linguistico “dialetto” equivale a lasciarlo nello status in cui si trova, senza elevarlo. Tu dici che non si può parlare di letteratura, filosofia ecc. in una lingua regionale: non che tu abbia torto (anche se ci sono alcune eccezioni come il piemontese), però se oggi non si può fare – a meno che non si prendano in prestito i vocaboli dall’italiano, anche se il lessico tecnico-scientifico in gran parte coincide nelle lingue europee: basterebbe adattarlo, qualora sia possibile, alla fonologia della lingua regionale – è proprio perché le condizioni sociali e politiche non lo permettono, non certo perché sia intrinsecamente inadatta a farlo.
Infatti, lo sforzo delle istituzioni della Sardegna o del Friuli-Venezia Giulia, dopo l’inclusione di sardo e friulano nella legge italiana, è proprio quella di dotare loro del lessico adatto per parlare di argomenti elevati (è notizia recente, in Sardegna, di una tesi di laurea discussa in lingua sarda: http://www.ilmarghine.net/notizie/territorio/2322/su-silanesu-lisandru-beccu-sest-laureadu-faeddende-in-sardu-in-suniversidade-de-tatari ).
Comunque, non è certo il criterio del lessico intellettuale a stabilire quale si possa definire una lingua e quale un dialetto: gran parte dei circa 7000 idiomi sulla Terra non lo possiede (penso ad esempio agli idiomi dei nativi americani, ma anche al nostro greco-calabro) – così come non possiede una standardizzazione – , tuttavia nessuno discute del loro status di lingue.
I trattati e le indicazioni delle istituzioni internazionali – devo correggerti su un punto, però: la “Carta delle lingue regionali e minoritarie” è stata promossa dal Consiglio d’Europa, che è un’istituzione diversa dall’Unione Europea – sono stati ovviamente promossi dopo consultazioni e collaborazioni con linguisti, i quali come lingua accademica internazionale usano l’inglese, e in inglese la parola “dialect” indica solamente una varietà non-standard della lingua ufficiale (quale può essere, nel caso dell’italiano, il toscano), e non anche – come avviene in Italia – un codice linguistico subalterno ad essa: quindi il criterio è soltanto linguistico e non sociolinguistico, per cui essendo ad esempio il lombardo inintelligibile ad un italofono, ed essendo questo evolutosi dal latino al pari del toscano, è una lingua.
In effetti a me pare la definizione più adatta, pertanto si tratta di lingue regionali (che in ogni caso continuano ad avere uno status subalterno alla lingua nazionale) e non di dialetti.
Per quanto riguarda le letterature, ricordo che quasi ogni lingua regionale italiana ha una letteratura risalente al Medioevo: per fare qualche esempio, il lombardo annovera autori quali Bonvesin de la Riva e Carlo Porta; il siciliano la Scuola Poetica Siciliana (anche se purtroppo gran parte delle opere della Scuola ci è giunta in traduzione toscana), ma anche Antonio Veneziano, Nino Martoglio, lo stesso Luigi Pirandello, ma anche il nostro Nicola Giunta (infatti noi reggini rientriamo nella lingua siciliana); in veneto Ruzante e Carlo Goldoni; il napoletano, ovviamente, autori quali Eduardo de Filippo, Totò, o Giambattista Basile.
Il fatto che si sia sviluppata una lingua letteraria nazionale basata sul toscano non impedì quindi la letteratura “dialettale”.
Infine, nessuno nega la vicinanza delle lingue regionali italiane, solo che – ripeto – esse andrebbero riunite nel sottogruppo italo-romanzo delle lingue neolatine (esattamente come sono ibero-romanze castigliano, portoghese, galiziano, catalano, asturiano, aragonese, mirandese, estremegno): dire che esse siano “italiano” lancia l’erronea idea che siano solamente variazioni del toscano, altrimenti dovremmo anche dire che il catalano è una variazione del castigliano. Quindi non puoi paragonare la situazione italiana con quella della Grecia antica, giacché i dialetti del greco antico sono inequivocabilmente varietà della stessa lingua, ma non altrettanto si può dire delle lingue regionali italiane.
In ogni caso, ti consiglio quando puoi di esplorare il sito e gli articoli (miei e non solo) in esso contenuti.
Bravo Giuseppe, mi hai tolto le parole di bocca! 🙂
La ringrazio molto, prof. Coluzzi! 🙂
In BASILICATA , la Cartellonistica Bi-Lingue ARBERESHE , è presente dal 2012 in tutti i 5 COMUNI dell’ARBERIA lucana (San Paolo, San Costantino, Maschito, Barile, Ginestra) ed all’Università della Basilicata (sede di Ateneo,POTENZA) . Per iniziativa della PROVINCIA di POTENZA e su proposta della Rivista “BASILICATA ARBERESHE” (Direttore Resp. Fondatore : Donato Michele MAZZEO ):E-mail . don.m.mazzeo@gmail.com , Sede Unica Regionale, Piazzetta Skanderbeg ,n.5 85022 BARILE (Potenza) . Tel. 0972721408. C.F.
……e comunque, quando si usa un termine che è vissuto dalla larga maggioranza dei parlanti come spregiativo, o perlomeno riduttivo, meccanicamente si trasferisce quest’ accezione negativa all’entità nominata.
Non è per un caso, d’altronde, che chi rifiuta o osteggia le lingue locali, non pochissimi in Italia, continua ad usare la voce “dialetto” senza aver mai desiderato di, o provato a, sostituirla con un altro termine. Per un motivo molto semplice: “dialetto” ha già in sé tutta l’accezione negativa che chi usa quel termine vuole esprimere.