Ora che il governo ha ricevuto la fiducia dalle due Camere, i lavori del Parlamento cominciano a pieno regime.
Il disegno di legge che noi attivisti per le lingue locali aspettiamo è la ratifica dell’importante Carta Europea delle Lingue Regionali e Minoritarie.
Cosa è stato fatto sinora?
La scorsa legislatura
Nella scorsa legislatura, la discussione in Aula di questo disegno di legge (sebbene fosse iniziata in Commissione già nel 2013) era stata continuamente posticipata, per poi essere calendarizzata (e poi rimossa) nell’ultimo giorno di seduta al Senato, alla fine del 2017.
Per di più, il disegno di legge prevedeva sostanzialmente la conferma della famigerata legge 482/1999: un provvedimento datato e inefficace, che riconosce solo alcune delle lingue d’Italia.
I relatori del disegno erano parlamentari provenienti da regioni con lingue già riconosciute (Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia), e non erano per nulla disposti a estendere le tutele ad altri gruppi linguistici.
Grazie all’impegno di alcuni senatori (di cui uno a contatto diretto col CSPL) siamo riusciti a introdurre nella discussione il tema delle lingue escluse, facendo riferimento esplicito anche all’Atlante UNESCO; ma ci siamo spesso trovati di fronte a un muro di gomma.
In ogni caso, con la nuova legislatura, il percorso ricomincia da zero.
Per questa ragione, è saggio non rimanere in balia degli eventi, e cercare fin da subito di fare la differenza.
L’importanza di un lavoro di squadra
Se però vogliamo davvero lasciare il segno, e “portare a casa” una legge davvero rispettosa della diversità linguistica del nostro Paese, occorre impostare il lavoro su basi nuove.
Tra le tante, una cosa mi sembra fondamentale: una maggiore collaborazione tra le tante realtà che in Italia combattono la nostra stessa battaglia, magari a un livello più locale.
L’idea di continuare a lavorare ciascuno per conto proprio, magari solo nel proprio ambito regionale, non funziona: le leggi regionali godono di un equilibrio molto precario. Nel 2010 la Corte Costituzionale accolse un ricorso del ministro Fitto contro una legge regionale del Piemonte sulla lingua piemontese, argomentando che solo lo Stato aveva potere di deliberare di tutela per le lingue.
Insomma, anche se l’attuale assetto dello Stato può non piacere, non si può far finta di niente: una parte del nostro lavoro di difensori delle lingue locali deve passare per Roma.
La necessità di fare “massa critica” poi è evidente: se è un solo comitato o associazione a lottare per questi temi, l’attenzione da parte delle istituzioni sarà sempre piuttosto bassa. Se invece si è in tanti, con storie e provenienze diverse, anche la nostra battaglia assumerà maggiore interesse.
Allargando la base delle persone che lavorano per lo stesso obbiettivo, aumentano anche le possibilità di trovare contatti e sponde nel Parlamento. Per esempio, si riuscirebbero a coinvolgere parlamentari di diverse provenienze e appartenenze politiche, di maggioranza e di opposizione.
Infine, si metterebbe in evidenza una differenza radicale rispetto ai rappresentanti delle “lingue 482”. Infatti, mentre molti di essi lavorano per mantenere uno status quo che privilegia solo alcune lingue, noi daremmo l’impressione di lavorare per tutti, anche per chi non ha ancora voce e riconoscimento.
In questo, spero che sia chiaro che il lavoro che ci aspetta deve essere svolto tra pari, senza gerarchie tra le diverse realtà: non esiste un diritto di primogenitura. Ma ritengo che se ciascuna delle nostre organizzazioni si trovasse di fronte a dei rappresentanti delle istituzioni, dovrebbe farlo a nome di tutti e, soprattutto, di tutte le lingue.
Per questa ragione, auspico che tutte le persone e le associazioni interessate possano trovarsi presto per discutere degli obbiettivi comuni e della linea da adottare.
Il riconoscimento ufficiale delle nostre lingue, anche a livello statale, è un pilastro importantissimo per la loro tutela. Non possiamo perdere l’occasione di lavorare per realizzare assieme un sogno così grande.
I giochi sono appena iniziati: non restiamo indietro!
Tutte le associazioni, i i comitati, le fondazioni, i privati che vogliono unirsi alla nostra rete sono pregati di contattare il CSPL direttamente dal sito.
Grazie, buona giornata.
Simona Scuri
Nell’ottica prospettata dal vostro post sono in grado d’indicarvi, oltre al già segnalato sito del Coumboscuro Centre Prouvençal, i seguenti recapiti di riferimento della comunità cimbra di Ljetzen (Giazza), in Lessinia. Faccio, però, presente che non conosco in modo diretto la persona sotto indicata. Vi ringrazio del vostro impegno per il riconoscimento di ogni lingua minoritaria.
:
Sig. Vito Massalongo – sito web ‘Festival della Lessinia’ http://www.ffdl.it/it/
http://www.cimbri.it/i-cimbri/usi-e-costumi-cimbri/usi-e-costumi cimbri_0_12.html
Aggiungo che il prof. Sergio M. Gilardino possiede un profilo Fb che, però, utilizza molto raramente: potrebbe comunque esservi utile. Se lo desideraste, ho in archivio alcuni testi scritti da lui sull’argomento: potrei spedirveli ad un indirizzo @.
Sappiatemi dire, grazie. Buona giornata
Sicuramente son d’accordo su quanto s’è detto; mi permetterei comunque di proporre alla discussione un paio di considerazioni:
– più che insistere su un ampliamento della lista delle lingue a cui applicare l’art.6/Cost., — giustificato e doveroso a mio avviso per varie aree linguistiche la cui alterità rispetto alla lingua italiana comune viene sottovalutata, ma non applicabile alla totalità del patrimonio linguistico italiano, che include anche varietà con modesta distanza strutturale dallo standard ma non per questo da lasciar morire — mi domando se non convenga piuttosto far leva sull’art. 3 (contro la disuguaglianza di trattamento che il quadro normativo attuale genera tra le diverse comunità linguistiche) e anche sull’art.9, sottolineando che anche i “dialetti” fanno parte del “paesaggio e [de]l patrimonio storico e artistico della Nazione”. Quest’ultimo riferimento implicherebbe certo motivazioni differenti delle azioni di tutela rispetto a quelli dall’art. 6, ma non necessariamente strumenti totalmente differenti: p.es. l’introduzione d’elementi di bilinguismo nelle istituzioni e nei servizi pubblici è motivabile sia come riconoscimento del diritto d’una minoranza (dove ci si richiamasse all’art.6) sia come promozione — non meramente museale — del patrimonio culturale (secondo l’art.9);
– credo poi fermamente che occorra fare causa comune con quanti rivendicano misure di valorizzazione delle lingue apportate dai processi migratori, anch’esse incontestabilmente lingue di minoranze linguistiche (alcune delle quali maltrattate già nei Paesi d’origine) e quindi logicamente oggetto dell’art.6. Gli eventi politici recenti hanno reso inattuale il dibattico sulla riforma della cittadinanza, ma quando questo si ripresenterà — cosa che prima o poi avverrà – credo che sarebbe incostituzionale interpretare la condizione dello “jus culturae” come rinnegamento della lingua materna, dato che non lo si richiede alle minoranze storiche. Detto questo non intendo negare che gli strumenti applicabili a lingue in diaspora differiscano da quelli applicabili a lingue con una base territorale (ma ormai in varie parti d’Italia il diattofono è ormai anch’esso un parlante in diaspora o quasi…).
Mi si perdoni l’annotazione un po’ pedeantesca:
a quanto mi risulta la forma “Ljetzen” non è corretta. La dizione tautsch (tautš, taut6) è al caso nominativo Ljetze, al caso obliquo Ljetzan. La forma in -n è più conosciuta forse perché è quella usata nelle locuzioni includenti preposizioni: es. “kan Ljetzan” (a Giazza), “tautsch ’un Ljetzan” (cimbro di G.).
Salve a tutti. Mi sono interessato da tempo di lingue e politiche linguistiche e ho scoperto di recente il vostro sito. Da un po’ mi chiedo se “Il riconoscimento ufficiale delle nostre lingue, anche a livello statale” sia davvero sempre “un pilastro importantissimo per la loro tutela”. Ad esempio ho saputo di vari esempi che dimostrano che 1) A volte la tutela statale di una lingua non impedisce che i parlanti di questa lingua diminuiscano 2) A volte le iniziative dal basso permettono di aumentare i parlanti senza alcun bisogno di tutele ufficiali dallo stato.
Un esempio del primo caso è il gaelico irlandese, da quando l’Irlanda ha ottenuto l’indipendenza ha provato in ogni modo con provvedimenti statali a mantenere alto l’uso di questa lingua ma perfino nelle Gaeltacht, particolari zone dell’Irlanda dove l’educazione primaria almeno fino a pochi anni fa era tutta in gaelico, sono stati proprio gli stessi madrelingua di quei luoghi ad avere sempre più disinteresse a far portare a tutti i costi i loro figli in quelle scuole. Inoltre, anche il 60% degli abitanti più giovani di quelle zone preferiscono parlare inglese in famiglia e con gli amici.
Un esempio del secondo caso è il gallese, che prima del 2011 non aveva ricevuto nessun riconoscimento di ufficialità da parte dello stato britannico ma che tuttavia ha avuto un aumento notevole del numero di parlanti lungo la seconda metà del secolo scorso grazie esclusivamente a iniziative che partono dal basso della società civile come la “Cymdeithas yr Iaith Gymraeg” e così oggi il numero dei parlanti del gallese di età inferiore a 24 anni è maggiore che nelle fasce d’età superiori.
Volevo perciò sapere perciò cosa ne pensate di questo tema su quali sono davvero le strategie migliori per favorire l’uso di una lingua e quanto la tutela da parte dello stato è realmente efficace a questi scopi al confronto con altri mezzi come iniziative culturali dal basso legate alla società civile e ad enti locali.
Buona giornata