In Italia (e non solo) il problema dell’attivismo verso le lingue regionali e minoritarie è che certi esponenti tendono a politicizzarle. Vediamo quali sono, nel nostro Paese, le più comuni false idee in tal senso.
Esse purtroppo sono deleterie, poiché danno il fianco a coloro che si oppongono alla salvaguardia di queste lingue. Non si dimostrano infatti migliori delle argomentazioni usate da chi è contro di esse.
Indice
La situazione linguistica nell’Italia pre-unitaria
Presso molti attivisti, è diffusa l’idea che l’Italia pre-unitaria fosse un’area geografica linguisticamente felice. Salvo poi arrivare l’Unità d’Italia ad imporre la “cattivona” lingua italiana per distruggere questa diversità.
Certo, nessuno dubita che dall’Unità in poi le politiche del governo – soprattutto durante il fascismo – siano state orientate in tal senso (ignorando chi, già nell’Ottocento, era a favore di un qualche tipo di salvaguardia linguistica). E che a queste si sia aggiunto il decisivo ruolo della televisione negli anni ’50 e ’60.
Tuttavia, i fatti non si sono svolti in maniera così lineare. Infatti:
- Già prima dell’Unità d’Italia sono avvenuti casi di sostituzione ed assimilazione linguistica: penso, ad esempio, all’arretramento del greco nell’estremo Sud Italia fin dal Tardo Medioevo;
- Anche dopo l’Unità, erosioni linguistiche sono avvenute indipendentemente dall’azione dell’italiano. Ad esempio dall’azione esercitata dai flussi migratori interni su alcune regioni del Nord, che han fatto sì che l’affermazione dell’italiano fosse soltanto una conseguenza di questo fenomeno.
Lingua = identità
Si tratta di una falsa equazione. Parlare una medesima lingua non implica avere percezione di una medesima identità.
In tal senso cito il caso che mi coinvolge personalmente, perché è quello che conosco meglio. Parlo della mia città, Reggio Calabria (della quale, per questo sito, sto pubblicando una serie di articoli dedicati proprio alla sua storia linguistica).
Reggio, pur trovandosi geograficamente in Calabria, presenta un dialetto associabile alle parlate della dirimpettaia Sicilia: ciò per ragioni sia di continuum linguistico, sia di mai cessati legami storico-culturali con l’isola (specialmente con Messina). Infatti, storicamente lo Stretto di Messina ha unito più che diviso.
Prendo ad esempio ciò che scrive (1988) il linguista siciliano Alberto Varvaro (1934-2014):
«Rispetto ad altre situazioni romanze, quella sic. è caratterizzata dalla facilità di identificare la delimitazione del dialetto con i limiti dell’isola (e delle isole minori). Questa convenzione attribuisce dunque un significato assai rilevante allo stretto di Messina, elevato a sede di un confine linguistico che a dire il vero non trova alcun riscontro nella realtà, in quanto i caratteri delle parlate delle due sponde sono del tutto analoghi, come lascia prevedere, a non dire altro, la frequenza dei contatti tra le due rive (fino ad epoca moderna assai più agevoli di quelli con molte località del montuoso e difficile territorio alle spalle di Messina). Il fatto è che tutte le isoglosse che distinguono il siciliano dai dialetti meridionali si distribuiscono a varia altezza lungo la Calabria.»
Tuttavia, i reggini continuano a sentirsi calabresi, anche se è diffusa una certa consapevolezza dei legami con l’isola. Diversamente dai molti siciliani che si considerano isolati rispetto al Continente.
Lingua diversa = identità diversa
Da contraltare al precedente paragrafo è la falsa idea secondo cui locutori di lingue diverse non possano possedere la medesima identità. Quindi, molti sfruttano la propria lingua regionale in chiave indipendentistica o autonomistica.
Mike Sciking ha giustamente scritto che l’attivismo per le lingue regionali non equivale all’indipendentismo.
Tuttavia, è un fatto che l’attivismo linguistico e l’indipendentismo possano a volte combaciare.
In ogni caso, parlanti di idiomi differenti (come lingua materna) possono condividere la medesima identità. Anche quando appartengono a famiglie linguistiche diverse. Anche quando – nel caso di uno Stato – non vi sia una forma di governo federale.
Esempi di questa situazione sono gli arvaniti e gli aromeni di Grecia.
L’identità dei popoli
Una considerazione di carattere etnologico.
Attivisti appartenenti ad una certa fazione politica parlano dei popoli quasi come se questi fossero blocchi distinti e paralleli. Quasi come se fossero un fatto biologico e non sociologico.
In realtà, come scrive (2008) uno dei maggiori antropologi italiani, Marco Aime (1956-):
«Un gruppo umano diventa etnia, popolo o nazione non sulla base di dati ascritti, ma per via di un progetto, e di conseguenza organizza il mondo sulla base di un’alterità, creata, che definisce il confine noi/loro.»
Il quale ribadisce inoltre che:
«Le identità sono perciò inscritte in un processo storico continuo e sono in mutamento perenne.»
Considerando la storia dell’Italia – e considerato l’influsso del romanticismo ottocentesco che ha prodotto il nazionalismo moderno – direi che le riflessioni di Aime (le quali, in realtà, appartengono a tutta l’antropologia culturale) sono più che azzeccate.
Conclusioni
La battaglia per le lingue regionali e minoritarie deve essere assolutamente avulsa da considerazioni di tipo politico/identitario.
Ovviamente ogni persona ha il diritto di sentirsi ciò che vuole, ma quando si tratta di considerazioni di tipo scientifico, la scienza come tale ha il dovere di essere imparziale!
Sono considerazioni che senz’altro condivido, e mi permetterei d’aggiungere un argomento a favore della non-linearità e non-biunivocità del rapporto tra lingua e “identità” politicamente rilevanti.
Parecchi popoli vivono da molto tempo una condizione di plurilinguismo che potremmo definitre strutturale, non figlia cioè d’una continguente doninazone esterna (o comunque d’un’imposizione d’una lingua dall’esterno). Penso ad esempio al “bilinguismo interno” dei bengalesi, singalesi e tamil, dato cioè dalla coesistenza d’una variante aulica arcaizzate ed una colloquiale più evoluta, con differenze che non si limitano — come invece generalmente nel caso delle lingue europee — a scelte lessicali stilisticamente graduate, bensì coinvolgono tutti gli aspetti del sistema linguistico (e una sitiazione simile è esistita a lungo anche in Grecia).
Oppure penso a casi come quello del Lussemburgo, in cui sia il francese sia il tedesco, oltre all’idioma locale (che è, tra i “dialetti” tedeschi, o per meglio dire le lingue collaterali altotedesche, uno dei più vitali — a riprova che di per sé non è impossibile la sopravvivenza d’un idioma di raggio limitato in un contesto di fortissima immigrazione) sono percepiti come normali componenti dello spettro lingusitico. e non comportanto alcuna frammentazione “identitaria” della popolazione del Granducato..
Vorrei citare il caso dei montanari delle valli del piemonte sud-occidentale, che imparavano l’occitano dai genitori, l’italiano a scuola e il piemontese durante il servizio militare.
Io sono di Reggio Calabria,e tutto questo calabrese in realtà non mi sento,semmai strettese o siciliano di calabria,perchè questo è un dato di fatto.Una cosa sono i regionalismi geopolitici,ed una cosa le identità linguistiche.Sono sicilofono ed orgoglioso di esserlo.Della Calabria non ho nessun interesse,non parlo succhiato,e non metto peperoncino nel latte.Semmai cannoli e arancini.Le isole eolie sono meno siciliane di noi in termini distanziali.Costruiamo tutto sulla geopolitica dei miei stivali.Vallo a dire ai bolzanini che non sono austriaci
Inviterei a leggere l’articolo bridge amore e fantasia,per riflettere su quello che si sente il reggino, quello che sa di cosa parliamo,e non quello che crede ancora che a Reggio Calabria si parla calabrese perchè Reggio fa Calabria.Ma andiamo su
Cosa mi tocca sentire nel 2019.Parlo calabrese perché sono di Reggio Calabria. Mi sembra di sognare.Ignoranza c’ ‘a scorcia e chi paraocchi.
Studio dialettologia da quasi vent’anni per scoprire sempre di più che ciò che ci unisce ai calabresi è l’appartenenza regionalistica.Fine.A me dei campanilismi del derby dello stretto portati nella quotidianità poco interessa,so solo che a mò di ironia ,gli abitanti di Reggio si chiamano messinesi,e gli abitanti di Messina si chiamano reggini,per rendere meglio ciò che intendo.In cosa mi devo sentire calabrese,in fratima che non uso,in chi n’è statu, che non uso,in fatigà che non uso, in appicciari che non uso.
Ovviamente signori non mi riferisco a voi che avete scritto ma a quelli che dicono,jeu sugnu calabbrisi,mangiu calabbrisi,e u missinisi è buddaci.Con rispetto parlando ai fratelli messinesi,che tanto stimo ed amo.Sono questi che si sentono calabresi?Se avessero aperto un libro per scoprire che il reggino è un dialetto siciliano doc,che più che di cucina calabrese si può parlare di cucina dello stretto,e che il nostro accento è siciliano,gli crollerebbe il palcoscenico della calabresità.Ma l’ignoranza è disarmante.Poi mi sento dire ,”sono andato al nord e mi hanno scambiato tutti per siciliano”.Ed io ma va,ma che mi dici mai.Ma scusa vieni praticamente se vogliamo ormai dalla Sicilia e vorresti che sti scambiassero per friulano?Roba da non credere.Io e da quasi 27 anni che vivo al nord e tutti ancora oggi mi prendono per siciliano,e non credo ci sia qualcosa di cui meravigliarsi.Ma io domanderei a questi fenomeni,ma avete mai sentito un accento calabrese si??????Ogni rispetto e mi inchino umilmente a chi ha scritto fino ad ora.Un abbraccio ed un saluto