Com’è noto, sono molti i miti esistenti sulle lingue regionali del nostro Paese. Tra di essi, uno dei più diffusi è quello che l’italiano derivi dal siciliano, visto che questa lingua è la prima che ha sviluppato una tradizione poetica.
Questa impostazione però è scorretta: vediamo di farci luce.
Indice
Alle origini del mito

La “scuola siciliana”
Le prime testimonianze di letteratura in volgare in territorio italiano nacquero in Sicilia sotto la dinastia sveva (metà del XIII secolo). Il grande prestigio culturale che l’imperatore Federico II di Hohenstaufen seppe dare alla propria corte diede vita a una scuola poetica “siciliana”.
A questa scuola poetica appartenevano molti dei membri della cancelleria reale, come notai e giudici, ma anche lo stesso imperatore Federico II e suo figlio Enzo di Sardegna. Essi prendevano ispirazione, nei temi e nello stile, dalla poesia provenzale, che parlava soprattutto di amore cortese.
Le innovazioni letterarie degli eruditi siciliani (che in realtà venivano un po’ da tutta l’Italia meridionale governata da Federico) furono molto rilevanti per la storia della letteratura occidentale: per esempio Giacomo da Lentini (circa 1200-1260) è considerato l’inventore della metrica del sonetto.
Dal punto di vista linguistico, i lirici siciliani utilizzarono una forma aulica del volgare siciliano isolano (senza una precisa forma standard), arricchendolo di latinisimi e di francesismi di origine colta e utilizzati nell’ambiente cortigiano di Federico. Insomma, una versione di siciliano molto variabile a seconda dell’autore, ma caratterizzata da un linguaggio molto ricercato.
L’eredità letteraria

In seguito alla morte di Federico II, la monarchia sveva entrò velocemente in declino, che i suoi discendenti non riuscirono a impedire. Con la fine della stabilità garantita dall’imperatore Hohenstaufen, anche la civiltà cortese siciliana che aveva creato scomparve presto nel dimenticatoio.
L’eredità poetica della scuola siciliana venne però conservata da alcuni copisti e raccolta dalla prima generazione di poeti toscani, come Guittone d’Arezzo (1230-1294); e molti dei temi e delle sperimentazioni linguistiche dei poeti siciliani vennero ripresi anche da autori successivi, come Dante Alighieri.
L’Alighieri fu un grande estimatore della lirica siciliana e del volgare in cui essa si esprimeva, tanto da fargli affermare nel suo De Vulgari Eloquentia:
Comincerò esercitando l’intelligenza nell’esame del siciliano: in effetti questo volgare sembra avocare a sé una fama superiore agli altri, perché tutto ciò che gli Italiani fanno in poesia si può dire in siciliano, e perché conosco molti maestri dell’isola che hanno cantato con gravità, come nelle canzoni Amor che l’aigua per lo foco lassi e Amor, che lungiamente m’hai menato.
In generale possiamo dire dunque che la poesia siciliana influenzò in modo rilevante quella in toscano.
Ma come si è arrivati ad affermare che la lingua italiana ha origine dal siciliano?
Un equivoco linguistico
Questione di vocalismo tonico
Le differenze linguistiche tra siciliano e toscano sono molto rilevanti: per esempio, per quello che riguarda il vocalismo tonico, ossia l’inventario vocalico della lingua.
E proprio una questione legata al vocalismo determinerà il diffondersi dell’equivoco di cui tratto in questo articolo.
Vediamo la cosa più nel dettaglio.
Il vocalismo tonico siciliano si distingue in modo netto da quello italiano-toscano, e in generale da quello di quasi tutte le lingue romanze.
L’italiano ha un sistema di 7 vocali.
/a, é, è, i, ó, ò, u/
Per questo viene definito eptavocalico.
Il siciliano invece ha un vocalismo basato su 5 vocali
/a, è, i, ò, u/
Dunque viene definito pentavocalico.
Ecco qualche esempio di confronto tra parole latine, siciliane e toscane che ti aiuterà a capire meglio la questione del vocalismo.
- BELLU -> bèddu (italiano bèllo)
- TELA -> tila (toscano téla)
- NIVE -> nivi (toscano néve)
- FILU -> filu (toscano filo)
- FOCU -> fòcu (toscano fòco)
- VOCE -> nuci (toscano vóce)
- NUCE -> nuci (toscano nóce)
- LUNA -> luna (toscano luna)
Ovviamente questo sistema non è esente da variazioni locali: in ampie zone del siciliano (per esempio la città di Palermo, ma anche il territorio del Ragusano) sono presenti dittongazioni come biéddu o fuòcu.
Si ritene che questo vocalismo sia stato causato da alcune innovazioni locali e forse dall’influenza della pronuncia bizantina (il greco rimase diffuso in Sicilia per molti secoli nel Medioevo), che avrebbe condizionato l’antica pronuncia di *téla, *névi, *vóci.
Gli autori siciliani, benché nei fatti usassero una varietà colta sopradialettale con molti prestiti latineggianti o di origine provenzale, mantennero nella loro scrittura il carattere del volgare siciliano autentico, sistema pentavocalico incluso.
Un problema di tradizione
Allora perché a noi sono arrivate poesie siciliane che seguono il vocalismo del toscano, apparendo molto italiane e poco siciliane?

I copisti toscani, quando trascrissero le poesie della scuola siciliana, decisero di rendere “più leggibili” (per sé stessi) i testi, e cambiarono deliberatamente il sistema vocalico siciliano in quello italiano.
Gli autori toscani successivi, che non avevano avuto accesso agli originali, conobbero la lirica siciliana solo nella veste toscanizzata. Di qui si sviluppò la credenza che il siciliano avesse influenzato l’italiano.
C’è anche da considerare che nell’opinione di molti autori dell’epoca il “volgare” italiano fosse una lingua unica da nord a sud, che si era frammentata per via della caduta dell’uomo ai tempi della Torre di Babele (era l’opinione espressa nel De Vulgari Eloquentia da Dante). Oggi noi sappiamo che le cose sono andate diversamente e che siciliano e italiano sono due lingue differenti. Ma ai tempi non era così. Gli intellettuali dell’epoca hanno pensato che tra siciliano e toscano non dovesse esserci una grande differenza, dato che uno poteva essere benissimo una varietà dell’altro.
Equivoci letterari e linguistici
Le trascrizioni toscaneggianti portarono anche ad alcuni imprevisti: difatti, nella versione toscana non tutte le rime siciliane combaciavano. Questo inconveniente (piuttosto regolare) venne interpretato o come una licenza poetica o come un’imperfezione stilistica (mentre invece la soluzione era più semplice: era una rima che funzionava con il vocalismo siciliano; tolto quello, anche la rima veniva meno).
Da questo equivoco nacque la cosiddetta rima siciliana, cioè una rima sbagliata apposta, con cui i toscani credevano di omaggiare la lirica siciliana!
Ecco alcuni esempi di rima che in siciliano funzionano, in toscano no:
- Morire/avere (in siciliano muriri/aviri)
- Distrutto/sotto (in siciliano distruttu/suttu)
- Croce/luce (in siciliano cruci/luci)
Esempi di ‘rima imperfetta alla siciliana’ sono presenti, per esempio, anche nella Divina Commedia. Ecco per esempio nel Canto X dell’Inferno (vv. 69-71):
Di sùbito rizzato gridò: “Come?
dicesti ‘elli ebbe’? Non viv’elli ancora?
Non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”
L’altro inconveniente, con molte più conseguenze a lungo termine, fu la credenza che i siciliani avessero realmente scritto le proprie poesie in quella lingua, all’apparenza così diversa da quella parlata sull’isola. Ne era convinto anche Dante che, sempre nel De Vulgari Eloquentia, afferma:
Dico dunque che, se si prende il volgare siciliano secondo la parlata locale media, sulla quale dovrebbe basarsi il giudizio, questa lingua non è minimamente degna dell’onore della preferenza, perché è pronunciata con una certa lentezza, come in Tragemi d’este focora, se t’este a bolontate.
Se invece lo prendiamo dall’uso dei migliori Siciliani, come si può osservare può osservare nelle succitate canzoni, non differisce in nulla dalla lingua più degna di lode.
Noi siamo a conoscenza della forma linguistica originaria delle liriche siciliane perché un componimento (uno solo!) si è salvato dalla furia toscanizzante dei copisti. Si tratta di Pir meu cori alligrari, di Stefano Protonotaro.
A esso vanno aggiunti anche diversi frammenti di altre liriche del tempo.
Possiamo dire che l’italiano deriva dal siciliano o no?
La teoria del siciliano padre dell’italiano viene vista con favore da due categorie di persone:
- chi ritiene che tutti i ‘dialetti’ siano delle sorta di dépendance dell’italiano (nell’ambito del cosiddetto ‘italoromanzo’), e quindi non ci troviamo di fronte a lingue diverse
- chi, volendo difendere la specificità della lingua siciliana rispetto a quella italiana, eccede in zelo e insiste in una superiorità del siciliano su tutte le altre parlate
in entrambi i casi, ci troviamo di fronte a un’interpretazione scorretta della storia linguistica dell’Italia.
Se infatti si può dire che la letteratura toscana venne influenzata da quella siciliana (la prima esperienza poetica in volgare dell’Italia medievale), è errato fare lo stesso ragionamento con la lingua.
Lingua e letteratura, infatti, sono cose diverse.
Dunque, possiamo dire che la letteratura italiana nasce grazie all’influsso della poesia siciliana.
La lingua italiana però non nasce in Sicilia e non deriva dal siciliano.
Facciamo un gioco
Prendiamo qualche verso di una poesia siciliana tra quelle toscanizzate, in questo caso il famoso contrasto Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo:
“Rosa fresca aulentissima, c’appari in ver la state,
le donne ti disiano, pulzell’e maritate;
tràgemi d’este fòcora, se t’este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia”.
Ora proviamo a fare l’operazione inversa, “sicilianizzando” il testo:
“Rosa frisca aulintissima, c’appari in ver’ la stati,
li donni ti disianu, pulzell’e maritati;
tràgimi d’esti fòcura, se t’esti a buluntati;
pir te nun aju abentu notti e dia,
pinzandu pur di vui, madonna mia”.
Forse era così che suonava nella versione originale il sonetto di Cielo D’Alcamo.
Bibliografia consultata
- Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1966-1969
- AA. VV., Storia della lingua italiana. Vol. III: le altre lingue, Torino, Einaudi, 1994
- Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, Milano, Garzanti, 2000
- Stefano Carrai, Giorgio Inglese, La letteratura italiana del Medioevo, Roma, Carocci, 2009
Perfetto. Su questa confusione tra liriche siciliane ” tradotte” in toscano e date ( da tutte le antologie scolastiche ) come originali , si fonda il diffusissimo topos dell’ italiano lingua unica e indivisibile , dal capitolare di Capua e le scritte di San Clemente in poi. È quello che si insegna ancor oggi in tutte le nostre scuole.
Complimenti ottimo articolo
Perfettamente d’accordo sul fatto che l’italiano non “deriva” dal siciliano. e chiara l’esposizione della teoria della toscanizzazione dei testi originari.
Però per completezza d’informazione trovo opportuno aggiungere che esiste anche una teoria differente, e cioè che la veste linguistica in cui ci sono giunti i componimenti non sia affatto stata manipolata dallo zelo toscaneggiante dei copisti (caso mai secondo qualcuno sarebbe “Pir meu cori allegrari” un sicilianizzazione dell’originale). La lingua della poesia della corte di Federico II sarebbe stata una lingua in certo modo artificiale — come lo è quella dei trovatori, del resto, pur radicandosi nelle parlate d’oc — e molto lontana dal parlare quotidiano, come mostrano anche i molti galloromanismi, e non più siciliana di quanto sia riconducibile al altre regioni, da cui provenivano del resto molte delle alte personalità che frequentavano la corte.
Alla questione delle rime che dimostrerebbero l’originale sicilianità dei testi è stata data una spiegazione alternativa a quella del pentavocalismo, e cioè che rime per così dire più approssimative erano ammesse nella metrica del latino medievale.
Non ho certo la competenza per schierarmi per l’una o l’altra ipotesi, che vatano entrambe sostenitori autorevoli; semplicemente m’è sembrato necessario accennare anche alla seconda per maggior informazione del lettore.
Solo nel 1790 si scoprì (o meglio: “si riscoprì”) che i componimenti poetici della prestigiosa Scuola Siciliana – giunti a noi soprattutto attraverso i codici tardoduecenteschi Banco Rari 217 (ex Palatino 418), Laurenziano Rediano 9 e, soprattutto, Vaticano Latino 3793 – non erano originariamente stati scritti nella lingua in cui ci erano pervenuti. Infatti in quell’anno lo storico della letteratura italiana Girolamo Tiraboschi trovò un manoscritto del ‘500 – mai stampato – del filologo modenese Giovanni Maria Barbieri e lo diede alle stampe con il titolo “Dell’origine della poesia rimata”. Tale manoscritto cinquecentesco conteneva, tra l’altro, alcuni componimenti della Scuola Siciliana copiati, come riferiva il Barbieri, da un codice del ‘300 – “Libro Siciliano” – andato perduto. In particolare conteneva:
– l’intero componimento di Stefano Protonotaro “Pier meu cori alligrari”
– un frammento di “Allegru cori plenu” di re Enzo;
– le ultime due stanze (versi 43-70) della canzone “S’eo trovasse Pietanza” dello stesso re Enzo
– la stanza iniziale (versi 1-12) della canzone “Gioiosamente canto” di Guido delle Colonne.
Tutti questi componimenti letterari nel libro del Barbieri stampato dal Tiraboschi ci appaiono in altra veste, una lingua diversa da quella in cui erano stati copiati nei 3 codici menzionati prima, una lingua chiaramente ‘siciliana’. All’inizio qualcuno pensò che potesse trattarsi di un falso (era difficile accettare che ciò che si era creduto per secoli non fosse vero…) ma poi proprio la scomparsa della cosiddetta ‘rima siciliana’ nella traduzione in siciliano dei componimenti dei 3 codici toscani dimostrò che effettivamente alla corte di Federico II si scriveva nella stessa lingua con cui erano stati trascritti dal Barbieri i componimenti della Scuola di cui sopra.
C’è da chiedersi come sia stato possibile l’insorgere di questo equivoco. La risposta sta nel fatto che alcuni avvenimenti di tipo politico portarono a volere una vera e propria soppressione di ogni testo originario della Scuola Siciliana e Dante, la cui influenza nelle questioni sulla lingua italiana è ben nota, fece il resto, a mio parere facendo finta di non sapere che i componimenti che lui leggeva nei 3 codici tardoduecenteschi erano stati modificati in senso toscaneggiante.
Per chi volesse approfondire:
http://palingenesicom.blogspot.it/2013/12/rosa-frisca-aulentissima-kappari-inver.html
http://palingenesicom.blogspot.it/2016/02/la-scola-poetica-siciliana-traslatata.html
Mi sembra di poter affermare che la componente che ancora crede alla teoria della non toscanizzazione dei testi contenuti nei 3 codici tardoduecenteschi, sia fortemente minoritaria.
In seguito alla rivolta dei Vespri Siciliani nell’isola, i guelfi, alleati di Carlo Primo d’Angiò, trafugarono i
volumi della scuola poetica siciliana portandoli in Toscana. Copisti toscani hanno adattato dal volgare
siciliano il volgare toscano privilegiando la rima toscana. Così non si dispone di una perfetta testimonianza della vera lingua utilizzata dai poeti della corte di Federico secondo. Degli originali
della poderosa biblioteca della scuola poetica siciliana, chissà perchè risultano tutti perduti dopo la
copiatura, si è salvato solo un componimento intero “Pir meu cori alligrari ” di Stefano Protonotaro
e tre spezzoni : ” Le ultime due stanze ” della canzone di Re Enzo, ” S’iu truvassi pietati ” e la canzone
” Gioiosamente ” canto di Guido delle Colonne e un frammento di ” Allegro cori plenu ” di Re Enzo
grazie ad una trascrizione dell’erudito emiliano Giovanni Maria Barbieri. Alcuni volumi si trovano nella
città di Pavia, portati personalmente dallo stesso Federico Secondo di Svevia. Sulla vicenda
le testimonianze autorevoli di Dante Alighieri e il Petrarca, sembrano essere molto chiari sulla
importanza della scuola poetica siciliana nel formare la base della lingua italiana.