In base alle fonti, il numero di lingue del Piemonte oscilla vertiginosamente. Molti esperti sono certi che nei confini regionali se ne parlino 8, ma qualcuno di molto autorevole dice che ce ne sono solamente 5.
Chi ha ragione? Lo scoprirai in questo articolo!
Introduzione al Piemonte
Il Piemonte è compreso interamente nella parte continentale dell’Italia, e non ha sbocchi sul mare. Confina a sud con la Liguria, a est con la Lombardia, a nord con la Svizzera e la Valle d’Aosta, a ovest con la Francia (in particolare con le regioni storiche di Savoia, Provenza e Contea di Nizza). Ha una popolazione di circa 4,5 milioni di abitanti, di cui 1,4 milioni sono riconducibili alle immigrazioni degli ultimi 50 anni, provenienti dal Veneto, dall’Italia Meridionale e, più recentemente, da Romania, Albania, Marocco e altri paesi.
Il Piemonte è la seconda regione italiana per superficie, dopo la Sicilia. Anzi a dire il vero fino al 1946, quando la Valle d’Aosta non era una regione a sé, il Piemonte era la regione più grande d’Italia, con la bellezza di 28662 km2. Il Piemonte è così grande perché è il relitto amministrativo della parte continentale e cisalpina dell’originario regno dei Savoia. È una regione motivata dal corso della storia più che da ogni altro fattore.
La Valle d’Aosta si è distaccata dal Piemonte nel 1946, come risposta alle pressioni della Francia che richiedeva «le rattachement total à la France» della parte patoisante del Piemonte (Memorandum di Algeri, 1943). In realtà sono prevalse le posizioni filo-italiane tra gli stessi valligiani. Quella scelta non sta salvando i patoé (cioè le parlate provenzali e francoprovenzali) rimasti in Italia, ma ha dato loro come minimo 20 anni di speranza in più. L’Italia è uno stato centrale, ma anche in questo è una copia mal-riuscita della Francia.
Per via delle pretese francesi del quadriennio 43-47, in Val d’Aosta non è stato tutelato il patoé locale, ma il francese di Parigi. Ancora oggi in Val d’Aosta vige un blando bilinguismo tra italiano e francese, che in realtà vede la netta prevalenza dell’italiano sul francese. Tale tutela non è modificabile dallo stato italiano, poiché è vincolata da un trattato internazionale risalente a quegli anni.
Con o senza la Val d’Aosta, il Piemonte resta una regione ampia, con sotto-regioni più compatte ed altre più frammentate, ciascuna legata alla sua collocazione specifica ed alla sua immediata prossimità. Non mancano delle tendenze dialettali largamente maggioritarie, ma vengono disattese sempre dalla costante presenza di eccezioni. Questo perché il Piemonte è un calderone, e vi si possono riconoscere numerosi dialetti piemontesi riconducibili a 6 tipi linguistici differenti, più ovviamente la lingua ufficiale italiana e la tutela del francese come lingua storica dei culti valdesi.
Lingue germaniche in Piemonte
Germanico Vallesano
Il tipo più facile da distinguere è il germanico vallesano, parlato dai coloni svizzeri che hanno fondato alcuni villaggi nel Piemonte settentrionale a partire dal Medioevo. Il vallesano resiste nella memoria di alcuni abitanti solo nei borghi di Alagna Valsesia, Rimella, Macugnaga e Formazza.
È una lingua molto debilitata, che mentre oltralpe dimostra grande vivacità, al di quà delle Alpi ha perso tanta della sua consistenza numerica e si è frammentata per ogni borgo. Questo a spese della sua rilevanza storica, del suo carattere conservativo e interessante, più svizzero di qualsiasi svizzero di Svizzera.
Lingue Romanze in Piemonte
Poi ci sono le lingue romanze, che sono tutte saldate tra di loro, e per questo distinguerle è una faccenda intricata. I confini politici storici, così come i fiumi e gli ostacoli naturali, vengono il più delle volte sopravvalutati, perché di fatto tutti hanno sempre comunicato con il loro vicinato, e anche laddove non c’era un dialetto di transizione, con il tempo si è formato, e solo di rado è stato riassorbito in un’area definita e compatta.
Torino e il Piemonte proprio
Il Piemonte ha fissato la sua capitale in un’epoca non così antica. Torino infatti è diventato il centro più importante del Piemonte solo a partire dal Cinquecento. Prima di quell’epoca Chieri, Asti, Saluzzo, Casale, Ivrea, Pinerolo e Vercelli avevano dimostrato una rilevanza pari a quella di Torino, e spesso anche di gran lunga superiore, per potere ecclesiastico, politico ed economico. Asti, in particolare, era la Firenze del Piemonte: ricchissima, con una torre per ogni banchiere, con una classe dirigente aperta al mondo dei commerci, ma molto poco votata al bene comune. I suoi nobili, sorti dalla classe mercantile e non da quella cavalleresca, non sono mai riusciti a stemperare le discordie interne, finché non si sono fatti superare da città più stabili.
Con il tempo Torino si è elevato sulle altre città non solo della regione, ma dell’Italia intera. Un buon paragone è quello tra Torino e Berlino: città unificatrici e periferiche al tempo stesso, non le più ricche, non le più colte, ma le più armate, le più organizzate, le più disinvolte nello stringere e nel rompere alleanze con chiunque fosse possibile (più o meno lecitamente) trattare. Il Ducato di Savoia era diventato così perché l’alternativa era finire come la Bretagna. Se qualcuno si domanda come mai la Casa di Savoia fosse così patriarcale e legata alla legge Salica, basti guardare l’annessione della Bretagna da parte della Francia per vie “nuziali”. Capirete bene che la trasmissione ereditaria a soli uomini era fondamentale per evitare l’unione personale delle corone di Francia e Savoia.
Piemonte, Savoia e Nizza sono rimaste a lungo legate, Nizza è stata unita al Piemonte per quasi 500 anni, dal 1388 al 1860, mentre la Val di Susa e Torino sono state stabilmente legate alla Savoia per oltre 800 anni, fin dal 1045.
Del Ducato di Savoia si diceva: savoiardi cacciatori, piemontesi contadini, nizzardi pescatori. Questo terzetto eterogeneo, una piccola coalizione di sopravvissuti dalla Francia, ha fatto tesoro della sue vistose differenze interne. Ma è stata forse quella complessità, in bilico sulle montagne più alte d’Europa, che ha permesso a questo Ducato -poi Regno- di rimanere l’unico stato italiano/francese indipendente fino all’età contemporanea.
Indipendenza che per mantenersi ha dovuto nutrirsi di annessioni a danni principalmente del Ducato di Milano, e di fallimentari attacchi alla Repubblica di Genova, risolti un po’ vigliaccamente con un’annessione coatta in seguito al Congresso di Vienna.
Torino quindi è stata capitale dei territori più svariati, così come svariati erano i reami dei sabaudi, iniziati in Moriana e finiti a Mogadiscio.
I simboli del potere di Torino oggi non sono altro che vestigia del passato, ma la città è diventata una metropoli, che ha compensato alla perdita di importanza politica con un’economia poderosa, la terza d’Italia dopo Milano e Roma. Per questo motivo il circondario non ha smesso di andarle dietro: tutte le vallate, inclusa la Val d’Aosta, la Provincia di Cuneo, tutta l’area collinare di Langhe-Roero e Monferrato e le province di Biella e Vercelli fanno riferimento a Torino per l’università, il lavoro, la giustizia, e costituiscono innegabilmente lo zoccolo duro del Piemonte anche dal punto di vista culturale e linguistico, sebbene nelle valli occidentali la lingua piemontese ceda puntualmente il passo ai patoé, che sono lingue di ceppo transalpino, o comunque di forte transizione con le lingue transalpine.
Però tutta l’area che segue Torino parla piemontese. La presenza di patoé e dialetti locali diversi dal piemontese comune non è in conflitto con la diffusione del piemontese comune, né il piemontese comune ha portato alla scomparsa del dialetto locale, tranne una manciata di casi molto vicini all’area urbana torinese.
Il piemontese di koiné (dal greco κοινὴ διάλεκτος ‘lingua comune’), compreso dalla maggioranza dei piemontesi, adottato da molti come “riferimento” nel parlato e nella letteratura in lingua regionale, e utilizzato anche dai valligiani patoisants nei loro contatti con la pianura ha creato una realtà linguistica che potremmo definire “piemontofonìa”. Esistono aree del Piemonte amministrativo che non sono storicamente coinvolte nella piemontofonia.
L’area lombardofona del Piemonte
Le province di Novara e VCO invece sono decisamente rivolte verso Milano. Entrambe sono geograficamente più vicine a Milano, e per questo il dialetto che vi si parla è di tipo lombardo, e anche i cognomi, le tradizioni, i toponimi e i monumenti, pur rimanendo tipici del nord-Italia e quindi molto simili a quelli piemontesi, portano innegabili tracce lombarde. In particolare avvicinandosi al Ticino e al Verbano di piemontese non resta nulla, se non l’amministrazione e la comune base gallo-italica.
Queste zone rientrano nel Piemonte amministrativo per via della Guerra di Successione Polacca (1733-1738), a cui partecipò Carlo Emanuele III di Savoia come alleato franco-spagnolo, riuscendo a strappare questo territorio lombardo in mano austriaca.
La definizione settecentesca data alle attuali province di Novara e VCO, assieme alla Lomellina che a quell’epoca faceva pure parte del Regno Sabaudo, era Lombardia Savoiarda, spartita politicamente dalla Lombardia Austriaca lungo il fiume Ticino, ma comunque distinta dal Piemonte proprio e dal Monferrato.
C’è anche una piccola zona intorno alla città di Tortona (provincia di Alessandria), che parla una varietà lombarda oltrepadana.
L’area ligurofona del Piemonte
Se dell’area lombardofona del Piemonte almeno si può dire che “non è stata vinta con le noccioline”, altrettanto non si può dire dell’area ligurofona del Piemonte: all’estremo sud-est si trovano la città di Novi Ligure, la Valle Scrivia e la Val Borbera, che sono chiaramente genovesi. Queste zone sono state annesse alla provincia di Alessandria (Piemonte) dal ministro dell’Interno Urbano Rattazzi, con un decreto del 1859.
Urbano Rattazzi era un ministro originario della città di Alessandria, che voleva far vincere il suo partito nel suo collegio elettorale. Siccome la Liguria era “rossa”, ovvero votava massicciamente a sinistra, Rattazzi decretò che tutti i paesi liguri transappenninici passassero dalla Provincia di Genova a quella di Alessandria. In realtà quei comuni sono ancora oggi legati a Genova per lingua, storia e tradizioni, e questo è evidente osservando la distanza geografica da Genova.
L’oltregiogo ligure è stato controllato da Genova in modo diretto o attraverso dei feudatari, e queste terra procuravano il grano alla grande città portuale, notoriamente impervia e priva di grandi superfici arabili. Ma Genova si procurava molto grano anche tramite le importazioni via nave dalla Sicilia e da altre regioni mediterranee, e l’oltregiogo serviva soprattutto come retroterra per la difesa della città, e ancora oggi è disseminato di castelli e fortificazioni genovesi.
Fa parte del Piemonte anche una piccola area di lingua ligure a sud della provincia di Cuneo, nell’Alta Val Tanaro, questa però legata al Piemonte da più tempo, per via della storia del feudo locale.
La difficoltà di proteggere le lingue parlate in Piemonte
La storia, l’economia, la geografia e le distanze lineari tra le città, la politica, le somiglianze culturali, la continuità delle lingue si sovrappongono tra di loro e formano la complicatissima realtà piemontese.
Sicuramente è anche per colpa di questa eccessiva complicatezza che la situazione piemontese si presta così bene alle semplificazioni degli incompetenti. Alcuni di loro in realtà sono in buona fede, ma marciano indubbiamente sul fatto che pochi hanno ben chiara la conformazione culturale e la formazione storica del Piemonte attuale.
Tuttavia, per coloro che sono interessati a ragionare, la presenza di dialetti di altre lingue in Piemonte non è in fondo né un problema, né un errore, dal momento che l’identità logica tra lingua ed etnia è una falsificazione. Bisogna capire bene che non è vero, né esatto, che 1 lingua corrisponde a 1 etnia, fatta eccezione per le realtà povere, geograficamente sperdute e romanticamente intatte d’Europa, che non sono poi molte, infatti il Piemonte non è tra queste.
Una volta intesi su questo punto, è chiaro come sia sbagliato contrapporre tra loro i dialetti piemontesi e non al di fuori della mera dialettologia comparativa. Sono piuttosto detestabili, e fuoriluogo nel caso piemontese, le distinzioni tra “minoranza” e “maggioranza”. Almeno per quanto riguarda il Piemonte, l’unica condizione da verificare per proteggere è l’esistenza. Poi dopo se lo studio di ciò che c’è in Piemonte rivela una complessità a dir poco barocca, c’era da aspettarselo. Il Piemonte è fiero di essere barocco.
Inoltre è idealmente molto bello che esista una regione plurilingue, e sarebbe bello se in seno alla regione Piemonte si potesse parlare liberamente di tutela linguistica con rigore e uguaglianza. In un mondo ideale, un ente regionale servirebbe anche e soprattutto a questo. Ma purtroppo non è così, per varie ragioni.
Nell’atto di tutela linguistica, lo Stato italiano impone un trattamento differente per i patoé delle valli e il germanico vallesano, rispetto a lombardo, ligure e piemontese.
Gli ostacoli statali e accademici
Nella costituzione italiana c’è un articolo, il numero 6, che recita
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Poi nella realtà applicativa, le leggi nazionali dello stato italiano mirano a garantire la cosiddetta “Maggioranza linguistica nazionale”, cioè a mantenere l’italiano una lingua da 60 milioni di parlanti a spese di almeno altre 8 lingue, e per questo motivo pongono su piani differenti alcune lingue rispetto ad altre.
In Piemonte esistono lingue da sempre minoritarie, come l’occitano cisalpino e alcuni patoé savoiardi o originali parlate di aspetto valdostano, oltre all’alemanno delle minuscole colonie vallesane. Secondo lo stato italiano queste lingue erano abbastanza debilitate e periferiche per poter essere tutelate senza problemi per l’unità nazionale.
Le lingue dei centri più grandi (il piemontese a Torino, il lombardo a Milano, il veneto a Venezia, il napoletano a Napoli) sebbene siano riconosciute da molti linguisti internazionali e dall’UNESCO, non sono riconosciute come lingue dallo Stato Italiano. Vengono infatti ignorate tutte attraverso la cavillosa definizione di dialetti romanzi che si riconoscono nell’italiano toscano.
L’Italia, nonostante la sottoscrizione di vari trattati internazionali come la Carta Europea delle lingue regionali o Minoritarie, non ha ancora riconosciuto il fatto che alcune città importanti parlano una lingua distinta dall’italiano. Questa è una scelta politica.
La responsabilità della scelta però non è tanto riconducibile allo stato italiano, ma alle accademie di linguistica! Sono infatti molti i professori universitari italiani che sembrano adeguarsi a ciò che dice lo Stato a riguardo delle lingue parlate in Italia, anche se dovrebbe essere l’incontrario, cioè dovrebbe essere lo Stato ad adeguarsi a quanto dicono le accademie di linguistica.
La legge 482/99 in Piemonte
Siccome le università italiane di dialettologia sono impegnate a studiare le lingue di tutto il mondo meno che quelle del loro stesso Paese, non esistono carte linguistiche redatte in università. La realtà non viene mai illustrata, perché le illustrazioni aiuterebbero a tutelare i patrimoni linguistici ma farebbero capire anche agli stolti le imperfezioni della legge 482 del 1999.
Questa legge, che includeva appunto solo le lingue marginali tra quelle meritevoli di tutela, ha predisposto che il riconoscimento delle minoranze linguistiche avvenisse attraverso l’autodichiarazione di ciascun comune interessato.
E allora siccome il piemontese non godeva di alcuna tutela, nel corso del 1999 molti comuni di parlata indubbiamente piemontese si sono autocertificati come provenzali alpini o savoiardi, in modo da ottenere dei finanziamenti per la tutela delle proprie parlate. Alcuni linguisti si sono ribellati a questa falsificazione (tra cui Fiorenzo Toso, che descrive bene queste dinamiche nel libro Le minoranze linguistiche in Italia), dal momento che si proteggevano i dialetti provenzali e franco-provenzali in posti dove non si erano mai parlati.
Purtroppo la legge 482 del 1999 non prevedeva che i linguisti controllassero e correggessero ciò che si stava delineando.
Dagli studi linguistici emergeva già prima del 1999 che in Piemonte ci fossero 47 comuni con patois forti (ovvero nettamente diversi dal piemontese), 30 comuni con patois di transizione con il piemontese, 8 comuni che parlano una specie di piemontese con appena qualche parola tipica dei patois, infine 2 comuni (Limone e Vernante) che parlano un dialetto dai tratti alpini, collegato anche al Kyé (un piccolo dialetto delle montagne di Mondovì), sicuramente diverso dal piemontese, ma che presenta dei tratti originali che solo con molta fantasia si possono dichiarare occitani.
Considerando comunque tutti questi comuni meritevoli di tutela, si arriva ad un totale di 88 comuni e 55476 residenti anagrafici, dei quali molti non vivono nel borgo alpino per tutto l’anno, o non tutti parlano il patoé locale.
Ma se si considerano tutti i comuni della pianura o della bassa valle che si sono dichiarati patoisant (parlanti di dialetti francesi) senza esserlo, i numeri si stravolgono: 170 comuni per 303390 residenti anagrafici! Praticamente una provincia!
Perché farlo? Chiaramente i soldi erogati dallo Stato vengono distribuiti in base alla popolazione coinvolta nella tutela. Tirando dentro un piccolo centro di 7360 abitanti come Dronero è possibile ottenere dallo Stato 16 volte tanto rispetto ai soldi garantiti da un vero paese patoisant come San Damiano Macra, che purtroppo ha soli 460 abitanti.
Un aspetto curioso su cui spesso si tace è il fatto che la legge non obbliga ad insegnare il patoé, anzi finora i pochissimi finanziamenti sono stati consumati in folclore con pochissima attinenza con la lingua. Così, quei pochi soldi solitamente sono spesi per pagare i suonatori di ghironda alle feste di paese.
Il tentativo di inserire il piemontese nella legge 482/99
Inserire le lingue nella legge 482/99 non spetta alle regioni, ma allo stato centrale. Il Piemonte infatti non può ufficializzare il piemontese se lo Stato glielo impedisce, né tanto meno può riconoscere il lombardo ed il ligure, visto che non sono riconosciuti neppure in Lombardia e in Liguria. Dal livello regionale non si possono neppure correggere le storture partorite dalla legge 482/99.
Quindi il tentativo (fallimentare) che la Regione ha cercato di portare avanti è stato di puntare al minimo indispensabile con la speranza di strappare il consenso allo Stato. Così si è cercato di tutelare sotto il nome di «piemontese» ciò che era dentro i confini amministrativi del Piemonte e che non fosse già protetto dalla legge 482. Dopo il 2009 era stato costituito il comitato Piemont-482, per far entrare il piemontese nel novero delle lingue tutelate, ma l’iniziativa non ha avuto seguito.
In ogni caso la forma che il piemontese avrebbe avuto se fosse riuscito a entrare nella legge 482 sarebbe stata completamente sblianciata ad est.
Da una parte sarebbero rimasti sotto la dicitura di «occitano» e «franco-provenzale» ben 81 comuni piemontesi, per circa 248000 residenti anagrafici, con ottime percentuali di piemontofoni, con picchi dell’80% (Rapporto IRES 2007), tra cui molti parlanti giovani.
Ma in compenso, come se fosse merce di scambio, sarebbero finite sotto l’etichetta di «piemontese 482» le aree gallo-italiche non piemontofone comprese nei confini amministrativi del Piemonte. Quindi questo “piemontese” avrebbe guadagnato 148 comuni a parlata lombarda con 503000 residenti anagrafici, 36 comuni a parlata tortonese (lombarda della bassa) per 61800 residenti anagrafici e 51 comuni a parlata ligure per altri 100200 residenti anagrafici.
Una vera assurdità, che ignora completamente la realtà linguistica, e per questo non avrebbe funzionato all’atto pratico del contatto con i parlanti. In ultima analisi, sarebbe stato un ulteriore schiaffo al rigore della disciplina dialettologica.
In ogni caso il «piemontese 482» -tutto spostato ad est- nonostante non si attenga alla linguistica, rimane al momento l’ipotesi più fattibile, perché è quella che meglio si inserisce nell’impianto amministrativo e legislativo attualmente vigente in Italia e in Piemonte.
Allora c’è da chiedersi: è veramente solo un sogno quello di una regione in grado di proteggere tutti i suoi patrimoni linguistici in modo professionale, chiamandoli con il loro nome, senza enfasi e senza negazionismi? Ed è chiedere tanto che la tutela linguistica sia svolta da figure professionali preparate, che sappiano garantire la correttezza scientifica e l’efficacia delle azioni di tutela?