La lingua lombarda e il suo eventuale riconoscimento da parte della Regione Lombardia continuano a far discutere. Recentemente il consigliere regionale Fabio Pizzul (Partito Democratico) ha espresso sul suo sito personale una serie di considerazioni e dubbi in merito alla questione.
Nel suo articolo, Pizzul scrive:
Non manca […] la previsione di un lavoro di “armonizzazione e codifica di un sistema di trascrizione”. Quest’ultimo aspetto credo andrebbe meglio indagato, anche perché secondo alcuni studiosi, è la condizione base per poter parlare di lingua. Per dirla tutta, potremmo essere di fronte a una legge che, con l’idea di promuovere la lingua lombarda, non fa altro che creare le condizioni perché un insieme di dialetti o una tradizione culturale assurga al rango di lingua.
In realtà, la lingua lombarda non è riconosciuta come tale dalla legislazione italiana, anche se altri soggetti, come l’Unesco, la citano tra le lingue a rischio di estinzione.
Personalmente, per evitare qualsiasi equivoco o forzatura, ho proposto di utilizzare una formula meno diretta, tipo “sistema linguistico lombardo”, ma la maggioranza ha voluto a tutti i costi parlare di lingua.
Mi rendo perfettamente conto che i problemi dei lombardi sono altri, e che non è certo un male operare per la conservazione delle parlate locali, come al solito, però, credo che l’attuale amministrazione regionale tenti di forzare la mano in un quadro di perenne rivendicazione di peculiarità e specificità che poi rischiano di venire utilizzate in chiave polemica o strumentale.
Sentire parlare dialetto non solo non mi scandalizza, anzi, mi piace molto, ma la battaglia per stabilire per legge che questo diventi lingua non mi convince per nulla.
Di fronte a questi dubbi riteniamo giusto precisare che:
- non è vero che è un sistema di trascrizione (uno “standard”) a creare una lingua. Le lingue esistono indipendentemente dallo standard, come dimostrano moltissimi casi in giro per il mondo, e numerosi esempi storici. Per rimanere nell’ambito italiano, prendiamo in considerazione alcune delle lingue locali riconosciute dallo Stato italiano a partire dal 1999: occitano, francoprovenzale e grecanico non hanno ad oggi uno standard ortografico unitario; il sardo ce l’ha dal 2006 (sette anni dopo il riconoscimento nazionale), e per giunta solo in forma sperimentale; il ladino ce lo avrebbe, ma continua a essere scritto nelle sue cinque macro-varianti.
- il fatto che una lingua non venga riconosciuta attualmente dallo Stato non significa che essa non lo sia: non lo erano nemmeno diverse “minoranze linguistiche” prima della 482/99; né lo è attualmente la lingua italiana dei segni, il cui riconoscimento è però stato votato all’unanimità in Regione Lombardia proprio nei giorni scorsi. Allo stesso modo, il friulano è stato riconosciuto come lingua dalla regione Friuli-Venezia Giulia tre anni prima (1996) della legge nazionale sulle minoranze linguistiche. In ogni caso, il fatto che organismi come l’UNESCO riconoscano la lingua lombarda come tale dovrebbe essere forse tenuto un po’ più in considerazione.
- le formule “meno dirette” (come sistema linguistico anziché “lingua”) possono essere usate per parlare di qualsiasi cosa: l’acqua può essere denominata “liquido acquoso”, una regione può essere benissimo ribattezzata “ente regionale”, un cane è un “esemplare canino”, il corpo un “organismo corporeo”. Resta da capire se è più ideologico e strumentale difendere il termine, semplice e corretto, di “lingua”, o coniare delle perifrasi che non hanno un vero fondamento scientifico.
- il modo più facile per scampare il rischio di “rivendicazioni di peculiarità e specificità da usare in modo polemico e strumentale” è uno solo: cioè che tutte le forze politiche facciano proprie tali rivendicazioni. In questo modo, non ci saranno più alibi per nessuno. E si romperebbe un monopolio politico sul tema. La tutela delle lingue locali non è un capriccio di qualche giunta regionale, ma qualcosa che già da tempo viene richiesto da numerosi trattati e organismi internazionali. E’ altresì vero che, spesso e volentieri, alcune forze partitiche di segno opposto all’attuale maggioranza in Regione Lombardia hanno dato l’impressione di voler combattere a tutti costi l’uso pubblico della lingua locale; questo risulta evidente nel caso delle rimozioni dei cartelli bilingue ad Arcore (2012), Lecco (2012), Novara (2013), Desenzano (2014), Ceresara (2016).
- è chiaro, infine, che un lavoro di pianificazione linguistica (e quindi anche l’elaborazione di uno standard!) è necessario per poter tutelare una lingua in modo efficace. E dunque, visto che almeno a parole siamo tutti a favore della salvaguardia del “dialetto”, perché non farlo nel modo più attento e competente? E’ quello che si fa, d’altronde, quando si attuano politiche per la riqualificazione e restauro di edifici antichi, per la salvaguardia della biodiversità, o per la tutela di categorie sociali svantaggiate. Perché con le lingue locali dovrebbe essere diverso?
La tutela di una lingua locale è un impegno che dovrebbe interessare tutta la società; anzi, in qualche modo ci permette di capire quale società vogliamo: omologata e amorfa, indistinguibile da qualsiasi altro angolo d’Europa? O capace di valorizzare quanto di più originale viene dalla propria terra e dalla storia della sua gente?
Perciò è scorretto dire che i problemi dei lombardi sono altri, quasi come se la salvezza della lingua lombarda fosse una boutade estemporanea, un colpo di testa, un tormentone estivo da dimenticare in autunno; o, quel ch’è peggio, che occupasse tempo che sarebbe più utile per risolvere “altri problemi”. Ma per questa ragione, la politica dovrebbe dimostrare, a nostro parere, più coraggio, generosità e capacità di ascolto. Il rischio è che, nella sacrosanta contrapposizione tra partiti, sul campo resti solo una vittima: il lombardo.