Gentile Accademia della Crusca,
Non possiamo esimerci da prendere posizione a seguito dell’intervento pubblicato come “il Tema” di ottobre sulla lingua lombarda. Da esperti di lingue regionali e bilinguismo regionale constatiamo che il professor D’Achille ha disquisito sul caso della lingua lombarda senza essere correttamente informato. Poiché le tematiche connesse alle lingue regionali e al mantenimento linguistico purtroppo vengono spesso trattate malamente nel contesto italiano, è necessario evitare di alimentare la confusione su temi già molto poco conosciuti e tanto meno discussi nell’opinione pubblica. Secondariamente, se si vuole un dibattito serio sulla questione delle lingue regionali d’Italia, e sulla decisione di Regione Lombardia di seguire gli sviluppi moderni evidenti in altre regioni d’Europa, bisognerebbe farlo con argomenti che si attengono ai fatti e basati su atteggiamenti contemporanei nonché pertinenti al tema della diversità linguistica.
D’Achille inizia col dire che “l’espressione [lingua lombarda] potrebbe essere usata solo per indicare il complesso dei dialetti lombardi”. L’uso del condizionale dimostra che D’Achille non conosce il tema di cui parla, visto che nel contesto delle lingue regionali e minoritarie il termine lingua è usato esattamente per indicare un complesso di parlate che formano un sistema linguistico separato da quello della lingua di Stato (nel nostro caso l’italiano). E proprio in sintonia con il contesto internazionale, il provvedimento di Regione Lombardia fa esplicitamente riferimento alla “promozione della lingua lombarda attraverso le sue varietà locali”.
D’Achille alimenta la confusione ammettendo che quelli che egli chiama “dialetti” sono lingue, ma sostenendo poi che le “lingue” sono solo quelle che “sono state messe per iscritto e si sono standardizzate per svolgere alcune specifiche funzioni”. Questo è allo stesso tempo falso e fuorviante. In primo luogo, tale affermazione è falsa perché delle settemila lingue parlate al mondo solo una percentuale piccolissima ha una storia pari a quella che D’Achille vorrebbe imporre come caratteristica determinante. Quasi tutte le lingue native americane sono interamente di uso orale, e nessuna è mai stata impiegata per funzioni amministrative. Lo stesso vale per le circa duemila lingue dell’Africa. Pretendere di chiamare “lingue” solo quelle che hanno una storia simile all’italiano o al francese non è solo una fallacia logica (una petitio principii, per essere precisi), ma è anche un atteggiamento elitario che è stato abbandonato dalla linguistica da almeno cinquant’anni.
In secondo luogo, sostenere che le lingue sono solo quelle che “sono state messe per iscritto e si sono standardizzate per svolgere alcune specifiche funzioni” è fuorviante. Infatti è risaputo che le lingue regionali, per loro natura, non possono avere o avere avuto lo stesso prestigio sociale di una lingua di Stato e dunque si trovano spesso senza una standardizzazione. Nemmeno il catalano, che è forse una delle lingue regionali più socialmente sviluppate al mondo, può vantare il livello di standardizzazione e di uso formale che vanta lo spagnolo. Ma non per questo il catalano è “meno lingua” dello spagnolo, è semplicemente una lingua meno standardizzata. Rimanendo in tema spagnolo, ricordiamo che la Real Academia Española usava pseudo-argomenti analoghi a quelli del D’Achille quando dava supporto a Francisco Franco nel chiamare i dialetti del catalano “dialetti spagnoli”, e che gli stessi pseudo-argomenti si trovano oggi nella retorica del governo Erdogan quando sostiene che “i curdi parlano dialetti turchi, non esiste una lingua curda”. Proprio per questo, e per via di questa abitudine di negare l’esistenza delle lingue regionali, il gruppo di lavoro del Parlamento Europeo ha recentemente pubblicato un documento dove equipara il mancato rispetto per lingue regionali e minoritarie ad un atto di discriminazione razziale in quanto violazione dei diritti umani. Aggiungiamo inoltre che in tale documento si fa riferimento alle lingue regionali d’Europa censite nell’Atlante UNESCO, dove appare anche la lingua lombarda.
L’ennesimo pseudo-argomento è presentato dall’affermazione che “bisognerebbe parlare di “lingue lombarde” “, perché in Lombardia esistono “vari dialetti lombardi”. Innanzitutto, è scioccante che questi luoghi comuni vengano ancora presentati come presunti argomenti per il presunto status di “non lingua”. Ogni lingua, è risaputo, cambia da una zona all’altra, eccezion fatta per due tipi di lingue: le lingue pianificate come l’esperanto, la cui variazione diatopica è trascurabile, e le lingue morte (ma anche le lingue morte cambiavano da una zona all’altra quando erano vive).
Se analizziamo qualsiasi lingua naturale ancora viva, la questione sta sempre e solo nell’ammontare della differenziazione dialettale, non certo nella sua esistenza. La differenziazione dialettale c’è sempre, piccola o grande che sia. Anche nel beneamato italiano c’è chi si siede sulla sedia e chi sulla seggiola, poi c’è chi mangia il cioccolato e chi la cioccolata, e ci sono persone a cui garba assai il cocomero e altre a cui piace molto l’anguria. Tutte varianti perfettamente accettate da dizionari e grammatiche come esempi di “lingua italiana”. La diversità tra le varianti della lingua italiana (spesso chiamati “italiani regionali”) è ovviamente nota a chi opera nel settore, tanto che alcuni ricercatori (per es. Cortelazzo e Mioni, 1984) hanno chiamato gli italofoni “dialettofoni inconsapevoli”, proprio perché sono incoscienti del fatto che anch’essi parlano una lingua che si differenzia da zona a zona. Questo dimostra come l’accusa di “non lingua” che viene fatta al lombardo potrebbe benissimo essere sollevata anche contro l’italiano, se non fosse appunto un’accusa priva di senso, visto che la variazione geografica è proprietà intrinseca di ogni lingua.
Facciamo inoltre notare che per loro natura le lingue regionali mostrano più variazione diatopica delle lingue di Stato. La lingua galiziana ha tre gruppi dialettali (ovviamente divisi in sottogruppi), la lingua sarda due (anch’essi divisi in innumerevoli sottogruppi) e la lingua basca nove. Il lombardo, con i suoi tre gruppi, è interamente in linea con le altre lingue regionali d’Europa.
Evitiamo di commentare le affermazioni secondo le quali il provvedimento di Regione Lombardia vorrebbe un futuro in cui “nella regione si usino solo lombardo e inglese e si possa tranquillamente fare a meno dell’italiano” perché si commentano da sole, dato che né il provvedimento della Regione né il progetto di legge hanno mai nemmeno lontanamente accennato a tale follia.
Ci auspichiamo invece che Regione Lombardia continui nel suo lavoro per la promozione ed il mantenimento della lingua lombarda seguendo altre regioni d’Europa come Catalogna, Friuli, e Galizia, dove il bilinguismo regionale sta dimostrando sviluppi molto positivi, contro l’elitismo linguistico e nel rispetto della diversità linguistica.
In fede,
Marco Tamburelli (docente di bilinguismo, Università di Bangor, GB)
Federico Gobbo (docente di interlinguistica ed Esperanto, Università di Amsterdam)
Claudia Soria (Istituto di Linguistica Computazionale “A. Zampolli”, CNR)
Roberto Bolognesi (docente di linguistica, Università di Amsterdam e Università di Groninga)
A nome del gruppo scientifico del CSPL