Lo sai che il piemontese ha una scrittura standard che risale al primo Novecento e che è comunemente impiegata da chi scrive e legge questa lingua?
La grafia piemontese è un presenta diverse analogie con i sistemi “francesizzanti” impiegati tradizionalmente per scrivere in lombardo e in genovese, ma trae molte delle sue caratteristiche dalla grafia italiana standard. Inoltre, anche se è basata essenzialmente sulla varietà di koinè (cioè il dialetto torinese), è impiegabile con successo anche per le varietà di piemontese più periferiche.
In questo articolo cercherò di trattarne velocemente la storia e di illustrarla nelle sue caratteristiche fondamentali.
Breve storia: le origini
Il piemontese, dopo le prime incerte grafie dei codici medievali, riuscì ad acquisire nell’età moderna una forma scritta abbastanza coerente. Essa era basata soprattutto sul piemontese colto usato dall’aristocrazia sabauda a Torino e nel territorio circostante. La letteratura e i vocabolari piemontesi del Settecento mostrano già una certa somiglianza, nonostante alcune oscillazioni, con il modo di scrivere il piemontese oggi.
Lo stesso si può dire per tutto l’Ottocento, che è il vero “secolo d’oro” della letteratura piemontese, includendo anche drammi teatrali, romanzi e addirittura giornali. Anche in questo caso la grafia adottata dagli autori piemontesi (che di solito scrivono nel piemontese di koinè) segue indirizzi simili, anche se differenziati da autore ad autore.
In generale si tende ad usare una grafia che, similmente a quella genovese e a quella milanese (e un tempo anche di altre vaste zone lombarde ed emiliane), costituisce una sorta di “ponte” tra i sistemi di scrittura italiani e quelli francesi.
La dialettologia italiana, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, cerca di imporre una grafia più coerente con la pronuncia italiana, ma di fatto la maggior parte degli autori piemontesi continua a usare quella tradizionale. Tuttavia manca ancora uno standard univoco, e quindi possiamo vedere diverse varianti: per esempio c’è chi usa il digramma francese <ou> (al posto di <o>), oppure <ñ> (al posto di <n->).
Qui di sotto, alcuni esempi di vecchia scrittura ottocentesca in piemontese (in dialetti locali più o meno affini alla koinè), tratti da una raccolta del 1875 di traduzioni di una novella di Boccaccio. Tali esempi ci dimostrano come la grafia avesse alcune variazioni, a volte anche vistose, ma che rimanesse sempre nello stesso alveo.
Dialetto di Asti: ‘l re, dôp d’esse stat fin’alora un fier poltron e san-sossì, coma s’ l’eisso desvialo da un seugñ, l’ha comanssà a castié severament l’offeisa d’ cola sgñora, pëui l’ha continuà a pié sodisfassion contra chionque aveissa fatt per l’avnì la pu pcita offeisa a l’onor d’ sua corona.
Dialetto di Cuneo: ‘l re, ch’ l’era stait fin ‘nlora meusi e pigher, coma se as desvieissa da durmì, comenssand da l’ingiuria faita a cola fomna, ch’ a la vendicà solennement, a l’è vnu un severissim persecutor d’ tut col che d’ ‘nlora an avanti a l’aveissa comess quaich cösa contra l’onor d’ la soa coroña.
Dialetto di Monteu da Po (TO): ‘l re, che fina anloura a l’era stait un pigrön, come se as desvieissa da ‘n seugn, a l’a comensà a vendiché mè ch’al dviva ‘l tort ch’a l’era stait fait a sta sgnoura, e d’anloura an peui a l’a pi nen perdounà ‘nsun ch’a l’aveissa ofeis l’ounour d’ söa courouna.
Dialetto di Pettinengo (BI): ‘l re, stac fin an docca an rablon pigher, come fussa dasgiassì dal seugn, cmanzand dl’angiuria facia a sta fombra a la vendicala bruscament, e a l’è vgnù gran persecutor d’ coi che contra l’onor dla sua corona a feiso peu quaich daspresi.
Dialetto di Saluzzo (CN): ‘l re, ch’a fin anlora a l’era stait mol e pigher, coma s’as dësvieissa da dormì, a l’a comenssà a vendiché severament l’ingiuria faita a cola fomna, e pëui a l’a sempre castigà con gran rigor tute cole cose c’a contra l’onor de la soa corona quaicadun a fasia.
Dialetto di Valenza (AL): al re, fin allora stat tard e pigher, cme csa svegeisa da dromì, cmensipianda dl’ingiuria fata a sta dona, cha la vendicà con rigour, a lè dventà persecutour teribil d’ tuti coui, che al cometisa quaicossa per l’avnì contra l’onour dla sou coronna.
Dialetto di Vercelli: al rê, che finâ ‘n lora a l’era stat poltrôn, e indölent, come s’as dasvieisa, a l’à prinsipià a vandichè ‘n sul serio l’ingiuria ca j’avö faji a cöla sgñöra, e l’è d’vantà ‘l pù gran persecutor ad tuti cöi che da l’öra an pêui j’aveisso fat quaicôsa cöntra l’önör d’ la so cörôñâ.
Lo standard
Nota bene: per la realizzazione di questo paragrafo ringrazio Simon Uslengh della consulenza e delle informazioni datemi.
La razionalizzazione della scrittura in piemontese arriva tra gli Anni Venti e Trenta ad opera di Giuseppe Pacotto (1899-1964). Egli compie un lavoro di raccolta della letteratura piemontese dei secoli precedenti, dando una scrittura uniforme (benché desunta dalla tradizione) a tutti i componimenti.
Una delle maggiori innovazioni proposte e attuate da Pacotto riguardò i segni diacritici: molte delle grafie storiche ottocentesche (come abbiamo visto nel paragrafo precedente) avevano utilizzato simboli come <ö> od <ô> per indicare il suono chiuso di [u]; Pacotto elimina tutti questi segni e introduce <ò> per la /o/ aperta.
Attorno a Pacotto e al suo editore Andrea Viglongo (1900-1986) si raccoglie tra gli Anni Venti e Trenta un gruppo di poeti e letterati (noto col nome di Compagnìa dij Brandé), che contribuisce a utilizzare e diffondere questo standard ortografico, il quale viene poi conosciuto in ambito piemontesista anche come Pacòt-Viglongh.
Non è utilizzata, si badi bene, solo da autori torinesi e cuneesi, ma anche da persone provenienti da altre zone del Piemonte. Questo anche perché la varietà a base torinese era effettivamente sentita, perlomeno fino a qualche decennio fa, come la vera koinè o piemontese comune.
Le grafie tradizionali alternative resistono ancora qualche decennio in maniera “ufficiosa” (per esempio una raccolta di canzoni popolari piemontesi uscita nei primi Anni Sessanta ha come titolo Le canssôn ëd Pòrta Pila anziché canson), ma perdono sempre più terreno di fronte alla Pacotto-Viglongo, codificata anche grazie a grammatiche, dizionari e antologie letterarie.
Al giorno d’oggi viene usata dalla stragrande maggioranza di chi scrive in piemontese in modo “professionale”, ed è anche la scrittura adottata dal prestigioso Centro Studi Piemontesi in tutte le sue iniziative editoriali (tra cui l’imponente Repertorio Etimologico Piemontese, uscito nel 2015), nella rubrica piemontese che appare su Torino Sette ogni domenica, nonché dal sito del Consiglio Regionale del Piemonte.
Leggere e scrivere in piemontese: piccola guida pratica
- a: in genere corrisponde alla “a” italiana, oppure a una sua variante che tende verso la “o aperta”
- cc: si utilizza solo in posizione finale per rappresentare il suono di “c dolce” italiano, per esempio in coercc (“coperchio”)
- dz: è usata in rarissimi casi (come in dzora, “sopra”) e rappresenta il suono [dz], ossia la “z dolce” dell’italiano zio
- ë: è la cosiddetta “terza vocale piemontese”, e corrisponde al suono [ə] (cioè la e muta francese); tale suono è presente molto spesso in posizione tonica, come in autëssa, gënner, sënner. Può essere anche in posizione atona, come in dësmentié (“dimenticare”)
- eu: come in francese, corrisponde a [ø]. Non è mai atona
- gg: si utilizza solo in posizione finale per rappresentare il suono di “g dolce” italiano, per esempio in magg (“maggio”)
- j: corrisponde al suono [j], cioè alla <i> italiana di iena; si usa in posizione intervocalica (come in vòja, paja, “voglia, paglia”), per i plurali (come in fradej, “fratelli”), per le forme dell’articolo determinativo maschile plurale (ij gat, j’amis, “i gatti, gli amici”)
- n-: corrisponde alla “n” dell’italiano angolo, ed è diffusa in larga parte del piemontese centro-orientale (oltre che in genovese e in alcune varietà lombarde, emiliane e romance), come in lun-a, cun-a, sman-a
- nn: per esempio in ann (“anno”)
- o: corrisponde quasi sempre a [u], oppure alla sua variante [ʊ] (che grossomodo sarebbe una via di mezzo tra una “u” e una “o chiusa” italiana)
- ò: corrisponde alla [ɔ], cioè alla “o aperta” italiana, come in bòsch, pòrta. Non è mai atona. In alcune pronunce locali può corrispondere anche al suono [o] (cioè la “o chiusa” italiana)
- ó: si utilizza solo per indicare il suono [u] quando è sull’ultima sillaba, come in ragó (“ragù”), oppure quando l’accento è prima della penultima sillaba, come in róndola (“rondine”)
- s-c: rappresenta l’unione tra il suono [s] e quello di “c dolce” in italiano, per esempio in s-ciairé (“guardare”)
- s-cc: come sopra, ma solo in posizione finale, per esempio in mas-cc (“maschio”)
- ss: corrisponde alla [s] semplice italiana, e può essere scritto sia in posizione intervocalica che in fine di parola, per esempio in Salusse, sass (“Saluzzo, sasso”)
- u: nella stragrande maggioranza dei casi si pronuncia [y], cioè lo stesso suono del francese. Tuttavia, come in italiano, si legge come [w] dopo q, g (come in quant, guera)
- v: di norma si pronuncia come in italiano. Tuttavia, in fine di parola o prima di un’altra consonante, assume il valore di [w], come in neuv, frev (nuovo, febbre), oppure gavte, davzin (tògliti, vicino)
- z: la presenza di <z> è abbastanza sporadica, e in genere corrisponde al suono [z] (cioè la s dolce italiana) dopo una consonante o all’inizio di parola; per esempio in davzin, bzògna, spòrze, arzo, monze, zanziva (vicino, bisogna, sporgere, argine, mungere, gengiva); può essere presente anche in fine di parola, come in bronz (bronzo)
Infine, è giusto ricordare che il piemontese, come l’italiano, utilizza ch, gh per rappresentare i suoni [k], [g] davanti alle vocali [e], [i]. Inoltre li utilizza in posizione finale, come in mach, arzigh (“soltanto, rischio”).
Altre caratteristiche
Gli accenti si utilizzano in questi casi:
- per il suono [ɔ], che come abbiamo visto si scrive <ò>: tròp, bòsch, gròss…
- nelle parole tronche: masnà, mangé, ëdcò, monsù, ragó…
- nelle parole in cui l’accento cade prima della penultima sillaba: tomàtica, àmola, màchina…
- nei dittonghi discendenti: càud, piemontèis, làit…
- nelle parole terminanti in -ia e -ua se i, u sono toniche: finìa, batùa…
Di solito non si utilizzano le doppie, fuorché
- nei casi elecati più sopra: –cc, -gg, -nn, -ss-
- quando la consonante è preceduta da <ë>: gënner, sënner, Assiëtta…
Per le varietà locali
Nel corso della seconda metà Novecento ci si è cominciati a porre la questione della scrittura per le varietà periferiche del piemontese (cioè tutte quelle non torinesi), che fino a quel momento non erano state granché prese in considerazione. Difatti, benché la maggior parte degli autori piemontesi continuasse a scrivere nella koiné su base torinese, gradualmente sorse l’esigenza di una letteratura più “locale”.
Di conseguenza vennero proposte alcune innovazioni pensate esclusivamente per le varianti locali
- ä: a seconda della varietà utilizzata può avere suoni differenti. Nell’alessandrino e nel monferrino viene usata per indicare quelle “a” toniche che tendono alla [ɔ]; per esempio mäta, Lissändria (“bambina/ragazza, Alessandria”). Nelle parlate lombarde del VCO viene usata invece per indicare la vocale [ɐ], sia tonica che atona;
- ĝ: viene usata da alcuni autori biellesi per indicare la [ʒ] (cioè la j francese); per esempio in ĝenĝiva (“gengiva”; in piemontese di koinè è zanziva);
- n-n: si usa in quei dialetti in cui la nasale velare è seguita da una nasale dentale; per esempio a Mombaruzzo, a Cortemilia o a Vicoforte galin-na (“gallina”).
- ř: usata nelle varietà delle Langhe, del Monferrato e della zona di Mondovì, indica il particolare suono della “r”, simile a [ɹ] (tipico anche di alcune vicine zone liguri e, più lontano, dell’inglese): per esempio a Viola (CN) cařéa (“sedia”; in piemontese comune cadrega)
- sc: ha lo stesso suono dell’italiano, ed è utilizzato soprattutto per i dialetti monregalesi, biellesi e valsesiani
- ts: pensato per quelle varianti (nella bassa provincia di Cuneo, nella Valsesia e nel lombardo VCO) che nel proprio inventario fonetico hanno anche la [ts], cioè la z dura italiana. A dire il vero però la maggior parte degli autori del VCO preferisce usare la <z> normale
- w: può essere usata per alcuni dialetti del Canavese, per esempio in warir “guarire” (in piemontese comune varì)
Altri modi di scrivere in piemontese
A fianco della grafia “tradizionale” piemontese sono presenti anche altre proposte di scrittura. Queste di solito accusano la grafia storica piemontese di essere poco comprensibile per i tanti che non sono abituati a leggerla e scriverla, e propongono un sistema di scrittura più vicino alle convenzioni italiane.
In alcune zone (per esempio nell’alessandrino e nel monferrino) invece si vuole affermare un’identità linguistica alternativa a quella gravitante su Torino.
Tali proposte scatenano spesso la reazione piuttosto piccata di coloro che utilizzano la grafia storica, che ribattono denunciando il rischio di una banalizzazione del piemontese e di un suo appiattimento sull’italiano. Non per nulla, queste grafie “moderne” coincidono spesso con quelle usate dalla dialettologia italiana.
Nel frattempo, la maggior parte dei piemontofoni è estranea e indifferente a questo dibattito, e tende a scrivere il piemontese “a occhio” (quindi in modo spesso impreciso e poco curato), senza delle vere preoccupazioni sulla scrittura.
Questo atteggiamento è tipico della maggioranza dei parlanti lingue locali in tutto il mondo. Le persone non sono abituate a veder scritto il proprio “dialetto” in modo professionale, e spesso non sanno che a volte esso possiede una scrittura codificata come le altre lingue.
Ma questo è un argomento che approfondiremo in un altro articolo…
Bibliografia e sitografia consultata
- Giovanni Papanti, I parlari italiani in Certaldo alla festa del V centenario di messer Giovanni Boccacci, Livorno, 1875.
- Karl Jaberg, Jakob Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz”, 1928-1940 (per le varietà locali del piemontese citate in uno dei paragrafi).
- Francesco Rubat Borel, Mauro Tosco, Vera Bertolino, Il piemontese in tasca, Assimil, Chivasso, 2006.
- Nicola Duberti, J’òmbre ‘nt le gòmbe, Centro di Studi Piemontesi/Cà dë Studi Piemontèis, Torino, 2013.