L’istrioto è, tra le molte lingue neolatine, una delle meno conosciute, e tra quelle maggiormente a rischio d’estinzione.
Viene presa in considerazione raramente, ed è poco citata, oltre che essere poco parlata. Il che è un peccato, perché è una lingua molto particolare nel panorama romanzo, che ci lascia alcuni interrogativi e che ci può aiutare a conoscere le complesse vicende di una terra di confine.
Diffusione e storia
Questa lingua è storicamente parlata nella parte meridionale della penisola istriana, in un territorio che attualmente appartiene alla Croazia, e che nel corso del tempo è stato sotto il dominio di Bizantini e Longobardi, Veneziani, Austriaci e Italiani. Al giorno d’oggi, l’istrioto sopravvive soprattutto nei paesi di Rovigno e Dignano, oltre che che a Valle d’Istria, Fasana, Gallesano (frazione di Dignano) e Sissano (frazione di Lisignano): si tratta dunque di paesi situati nella porzione meridionale della costa adriatica dell’Istria. Tuttavia si può presumere che un tempo la sua estensione arrivasse anche più a nord, all’incirca fino a Parenzo.

L’Istria (che era già inserita nelle regioni dell’Italia romana) alla caduta dell’Impero rimase nell’orbita del Patriarcato di Aquileia, e questo determinò la vicinanza della sua lingua a quelle del Nord Italia, e non a quella parlata in Dalmazia. Col passare dei secoli, le varianti neolatine dell’Istria si divisero in due blocchi principali:
- il nord, assieme a Trieste, continuò a gravitare verso Aquileia e il Friuli, mantenendo varianti di tipo friulano (come testimonia anche Dante nel De Vulgari Eloquentia, accomunando Friulani e Istriani) fino alla prima metà del XIX secolo;
- il sud rimase più isolato, e forse ebbe come centro linguistico l’antica città di Pola, dove si diffuse l’istrioto.
Le due aree probabilmente formavano un continuum (dunque con dei dialetti di transizione), che venne spezzato dalle progressive migrazioni degli slavi (prima) e dall’influsso culturale e linguistico veneto (a partire dal XIV secolo). In ogni caso, il fatto che non sia nata una koinè istriota fa pensare che l’influenza di Pola (se mai c’è stata) non fosse molto forte.
Come già detto, il veneto (prima di tipo veneziano, poi triestino) divenne presto una lingua importante nella regione, e divenne gradualmente la lingua nativa della maggior parte degli istriani “italiani”, nonché lingua franca nei rapporti con gli slavi. L’istrioto a sud e le varianti friulane a nord (come anche il dalmatico, non lontano da lì) persero sempre più terreno e importanza, fino quasi a scomparire. Nonostante tutto, l’istrioto riuscì a sopravvivere in quei sei paesi fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Difatti, in seguito alla fine del tragico conflitto, la maggioranza della popolazione italiana abbandonò l’Istria, che nel frattempo era passata sotto il controllo della Jugoslavia. Questo esodo ebbe anche delle conseguenze linguistiche: mentre le varianti venete si rimescolarono tra di loro e con il triestino, l’istrioto divenne ancora più debole e slegato dalla propria comunità, dispersa nella diaspora istriana. Al giorno d’oggi si stima che l’istrioto venga parlato da circa tremila persone, distribuite in piccoli nuclei tra l’Italia e nei sei comuni istriani (dove la popolazione italiana è ancora il 10% circa degli abitanti). In ogni caso, la giovane letteratura istriota ha visto la luce di un poeta come Ligio Zanini (1927-1993), considerato un autore di grande livello letterario, forse il più importante della comunità italiana in Croazia.
Studio e dibattito
Le notizie antiche relative all’istrioto sono molto scarse: le prime testimonianze scritte di questa lingua risalgono al 1835, quando il canonico istriano Pietro Stancovich (1771-1852) pubblicò alcune traduzioni della parabola del Figliol prodigo nei dialetti istrioti, e raccolse alcuni sonetti (più vecchi di qualche anno) rimasti inediti fino a poco tempo fa. Più o meno in quegli stessi anni il podestà di Dignano, il nobile Giovanni Andrea dalla Zonca (1792-1853) redasse un vocabolario manoscritto della parlata del suo paese, rimasto inedito per molti decenni, oltre a comporre qualche poesia occasionale e brevi brani in prosa dal sapore popolaresco. L’interesse verso questa lingua crebbe verso la fine del XIX secolo, che venne battezzata “istrioto” dal grande linguista goriziano Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907).

Il primo studioso dell’istrioto fu il rovignese Antonio Ive (1851-1937), seguito anche da Carlo Battisti (1882-1937) e da Matteo Giulio Bartoli (1873-1946). Successivamente, se ne occuparono anche studiosi jugoslavi, come Mirko Deanović (1890-1984), Miho Debeljuh (1927-1999), Pavao Tekavčić (1931-2007) e Žarko Muljačić (1922-2009).
Chiaramente, tanto interesse nell’istrioto (oltre che alle altre parlate dell’Istria) tradiva anche lo spirito politico del tempo: l’Istria, regione di confine, abitata da italiani e da slavi, nell’epoca del nazionalismo e dell’irredentismo diventava un territorio ambito da molti; dimostrarne l’italianità poteva aiutare le pretese italiane su quelle terre, e viceversa.
Da questo punto di vista, è facile capire il senso delle discussioni sulla classificazione dell’istrioto: Ascoli e Ive (1900) erano propensi a definirlo una variante “ladina” (come il friulano), tant’è che Ive coniò il termine ladino-veneto; Bartoli (1919) e Battisti (1933) invece tennero a ribadire le profonde similitudini col veneto e gli altri “dialetti” settentrionali – e quindi al sistema linguistico italiano in senso largo; per contro, gli studiosi jugoslavi si operarono per dimostrare l’originalità dell’istrioto rispetto ai “dialetti italiani”, mettendo in risalto gli aspetti pre-veneti e coniando anche il termine istroromanzo (sulla scia di altre definizioni come italoromanzo, galloromanzo, retoromanzo, iberoromanzo…).
L’atteggiamento “venetista” degli italiani si può vedere, per esempio, nel Vocabolario giuliano di Enrico Rosamani (1958), che tratta l’istrioto come una delle tante varianti del veneto giuliano, accanto all’istroveneto, al triestino, al gradese e al bisiaco; questo confronto viene riproposto anche nel Grande dizionario del dialetto triestino di Marco Doria (1987).
Caratteristiche dell’istrioto
(NB: per comodità, ho trascritto l’istrioto secondo alcune regole in uso generalmente per il veneto)
Fonetica
Tra le caratteristiche fonetiche più evidenti dell’istrioto (soprattutto nelle varietà di Rovigno, Fasana e Dignano) abbiamo la presenza di un gran numero di dittonghi discendenti ([ou]/[ɔu] e [ei]/[ɛi], spesso scritti <oû>, <eî>) e ascendenti ([wo] e [je]):
- doûro, croûdo, loûna, oûmado, froûto (duro, crudo, luna, umido, frutto);
- fadeîga, preîmo, sinteî, veîda, beîpara (fatica, primo, sentire, vite, vipera);
- fuórsa, cuólo, cuórno, muórto, nuóto (forza, collo, corno, morto/morte, notte) – cf. il friulano fuarce, cuâr, muart, lo spagnolo fuerza, cuerno, muerto;
- biél, fiéro, tiéra, inviérno, niésa, piél (bello ferro, terra, inverno, nipote femmina, pelle) – cf. il friulano biel, fiêr, tiere, lo spagnolo fierro, tierra.
Sembra che questi dittonghi (soprattutto <oû>, <eî>) siano un’innovazione piuttosto recente. A Gallesano, Sissano e Valle non erano presenti e quindi, per esempio, si diceva fila e dura (come in italiano) anziché feîla e doûra. A Dignano, rispetto a Rovigno, mancano i dittonghi [wo] e [je], e quindi si dice córpo e téra. Dal punto di vista del confronto con altre lingue, è interessante notare che questi dittonghi erano presenti anche negli antichi dialetti friulani di Trieste e Muggia (dove si diceva piarsic, cuorf, louf, “pesca, corvo, lupo”), oltre che nel veneto di Grado (dove si dice luóvo, niévo, “lupo, nipote”).

Un’altra caratteristica fonetica molto curiosa è la presenza di una /o/ finale per molte voci che in veneto e in italiano terminano con la /e/:
- sostantivi femminili: turo, muórto, parto, fronto, bulpo, navo, nivo, zento, arto, ciavo, carno, tuso (torre, morte, parte, fronte, volpe, nave, neve, gente, arte, chiave, carne, tosse);
- sostantivi maschili: foûlmano, navudo, monto, parento, piso (fulmine, nipote, monte, parente, pesce);
- aggettivi: dulso, dìbulo, grando, virdo (dolce, debole, grande, verde);
- voci verbali: el sento, el saravo (egli sente, egli sarebbe);
- avverbi e congiunzioni: senpro, insenbro (sempre, insieme).
La presenza di questa /o/ ha interrogato molti studiosi: in generale si ritiene che sia stata aggiunta col tempo (e quindi anticamente avremmo avuto voci come *tur, *muort, *fulman, *navud, *duls, *vird, el *sarav, che renderebbero l’istrioto ancora più simile al friulano e alle altre lingue del nord Italia), ma non è chiaro in base a quale processo. Alcuni sostengono che sia stata l’influenza veneziana a spingere gli istrioti ad aggiungere vocali alla fine delle parole, altri invece ritengono che si tratti di un’evoluzione interna alla lingua. Inoltre, curiosamente, da questo processo sono escluse molte parole che terminano con la /s/ come pas, lus, bus/vus, el deîs, rispus, ruvignis, dignagnis (pace, luce, voce, egli dice, risposto, rovignese, dignanese), a parte alcune che hanno aggiunto una /a/ finale, come nuxa, cruxa (noce, croce).
Morfologia e sintassi
Dal punto di vista della grammatica, possiamo dire che l’istrioto condivide la maggior parte delle caratteristiche delle lingue del nord Italia. Degno di nota è il pronome personale complemento anda/’ndo per “ci, a noi”: per esempio quila ca ‘nda faravo curajo (quella che ci farebbe coraggio) a Rovigno, o al ‘ndo dà al s’ciopo (ci dà il fucile) a Dignano; nei tempi più recenti è presente anche la variante na, più simile al veneto ne: per esempio in i na purtide, “ci portate”.
Lessico
Dal punto di vista lessicale, si può vedere come nell’istrioto si siano conservati degli arcaismi assenti in altre lingue del nord Italia:
- xeî (latino ĪRE, “andare”), invece del veneto andar (vedi anche napoletano ì, umbro gì);
- piurà (latino PLORĀRE, “piangere”) invece del veneto piànzer (vedi anche piemontese pioré, francese pleurer, spagnolo llorar);
- doûto (“tutto”) anziché il veneto tuto (vedi ladino e friulano dut, veneto istriano duto);
- favalà assieme al più moderno parlà (vedi anche friulano fevelâ);
- feîo (latino FILIUS), invece del veneto fiol (vedi italiano figlio, francese fils);
- frà (latino FRATER) assieme al più moderno fardiélo (vedi friulano fradi);
- nevo (dal nominativo latino NEPOS) assieme a navudo (dall’accusativo latino NEPOTEM; vedi anche il veneto nevodo e il gradese niévo, oltre che il galloitalico di Sicilia név, niv);
- seîna/inseîna (latino SINE, “senza”), invece del veneto sensa;
- uldì (latino AUDĪRE, “sentire”) assieme al più moderno sinteî;
- soro, pl. surure (latino SOROR), invece del veneto sorela;
- vula (che) per “dove, laddove” (vedi ladino dolomitico ulache, con lo stesso significato);
- a Dignano seî (dal latino *SEDĚRE) col significato di “essere”, assieme al più moderno jesi (vedi lo spagnolo e portoghese ser, il lombardo ossolano e il piemontese valsesiano sì).
Per la coniugazione dei verbi, ricordiamo che:
- esistono quattro coniugazioni: per esempio pansà (pensare), pudì (potere), bivi (bere), vigneî (venire);
- tutte le coniugazioni hanno le stesse terminazioni. Unica eccezione è la terza persona singolare del presente indicativo dei verbi della prima coniugazione, per esempio lu el lava, lu el divo, lu el crido, lu el duórmo (egli lava, deve, crede, dorme);
- come la maggior parte delle lingue del Nord Italia, anche l’istrioto ha dei pronomi verbali obbligatori prima di ogni persona verbale: i lavo, ti lavi, el/a(l) lava, i lavémo, i lavì, i lava (come nel piemontese i lavo, it lavi, a lava, i lavoma, i lavi, a lavo, o nel vecchio milanese a lavi, te lavet, el lava, a lavom, a lavii, a/ai laven);
- come in veneto, lombardo orientale e romagnolo, anche in istrioto la terza persona singolare e plurale hanno la stessa desinenza: el canta, i canta (“canta, cantano”), el crido, i crido (“crede, credono”), e così via;
- come in alcune varietà di veneto, la terza persona singolare del verbo essere (xi) può significare sia “(egli) è” che “c’è, ci sono”: per esempio (a) xi stà qualchedoûn significa “c’è stato qualcuno”;
- la desinenza della prima persona singolare del futuro è in –é: per esempio meî i sarié, “io sarò” (vedi anche il piemontese mi i sarai, francese je serai, friulano jo o sarai, spagnolo yo saré, e invece il veneto mi sarò);
- la desinenza del condizionale è in –avi/-avo, più antica di quella veneta in –arìa: per esempio meî i saravi, “io sarei” (vedi anche lombardo antico mì sarav, ladino ampezzano jo saràe, genovese mi saiæ);
- il congiuntivo imperfetto e il condizionale presente possono confondersi l’uno con l’altro: la frase i sugneîn xeîdi a caxa meîa cumo se no saravo gnente, significa siamo andati a casa mia come se non fosse (letteralmente “sarebbe”) nulla;
- allo stesso modo, a Rovigno nui i fusiémi, vui i fusì significano sia “che noi fossimo, che voi foste”, sia “noi saremmo, voi sareste”.
Per avere qualche idea della differenza che c’è tra le varianti di Dignano e Rovigno (le meglio documentate) ecco qualche esempio tratto dalla coniugazione dei verbi:
- a Dignano la prima persona singolare del verbo essere al presente è meî i soin, a Rovigno invece è meî i son (dunque più condizionato dal veneto);
- a Dignano la terza persona singolare del verbo avere al presente è jò, a Rovigno invece è uó;
- a Dignano “noi siamo, abbiamo” si dice nui i sugneîn, i veîn, a Rovigno invece è nui i signemo/siemo, i (a)vemo (anche in questo caso, si nota l’influenza veneta);
- a Dignano “voi venite” si dice vui i vigneî, a Rovigno invece è vui i vignì/vignide;
- a Dignano la desinenza della prima persona singolare è in -i, a Rovigno invece è in -o: dunque meî i lavi contro meî i lavo;
- a Dignano la desinenza della prima persona plurale dell’imperfetto è -avono/avundo, a Rovigno invece è -iémi/-endi: dunque fàvono/fàvundo contro faviémi/favendi (“facevamo”).
Per farsi un’idea
Per avere un’idea della scrittura in istrioto, ecco una versione di fine Ottocento della famosa parabola del Figliol Prodigo, contenuta nel saggio di Mirko Deanović Avviamento allo studio del dialetto di Rovigno d’Istria (Università di Zagabria, 1954):
Oûn omo el viva du fiuói. El pioûn peîcio da luri ga deîs a su pare: «Misàr pare, dime la parto de la ruoba ca ma tuca», e lu uó fato fra luri la spartision de la ruoba. Da là a puochi deî el feîo pioûn peîcio l’uó miso doûto insieme e al sa na xi xeî in pais a largo, e là l’uó cunsumà doûto el suójo in bagurdi. Duopo che lu uó frajà doûto, xi stà una gran caristeîa in quil pais, e a lu a ga uó scuminsià a mancàghe el bixuógno. E el xi xeî, e al sa uó pracasà davanti da un dai paixani da quil pais: e quisto lu uó mandà a la su veîla a fà el guardian dei puorchi. El bramiva d’impineîse la pansa da giande ca magniva i puorchi, e ningoûn ga na diva. Ma vignoû in sa stiso, el deîs: «Quanti famii in caxa da ma pare i uó pan a oûfa, e meî i cripo da fan! I ma livarié, e i xarié da ma pare, e i ga dirié: Misàr pare, je fato pacà contra del sil e contra da vu! I nu son digno adiéso da jési ciamà vostro feîo: tratime cume oûno dei vostri famii». E el sa uó livà soûn e el xi xeî da su pare. E in quil ca loû gira ancura a largo, su pare lu uó cognosoû e el sa uó butà i brasi al cuólo e lu uó baxà. E el feîo ga deîs: «Misàr pare, je fato pacà contra del sil e contra da vu! I nu son digno adiéso da jési ciamà vostro feîo». E el pare ga uó deîto ai su siérvi: «Priésto, cavì fuóra i drapi pioûnda presiuxi e matìgali induoso, e matìghe in dì l’aniél e i buxighini ai peîe. E manì el vadiél graso, masìlo e ca sa magni e sa fraj. Parchì stu ma feîo el gira muórto e el xi rasusità; el sa gira piérso e el xi catà». E i uó scuminsià a fà fraja. In quil criédo el feîo pioûn viécio el gira a fuóra, e intùl turnà, custàndose arente la caxa, el sento soni e bali. E l’uó ciamà oûn dei famii e el ga uó dumandà cheî ca vol deî sta ruoba. E loû g’uó rispuosto: «A xi vignoû da cavo tu frà, e tu pare uó masà oûn vadiél graso, parchì el lu uó da racavo san». E loû xi xeî in biéstia, e el nu vuliva xeî drento. El pare donca xi vignoû fuóra e lu uó scuminsià a pragàlo. Ma loû ga uó rispus, e el ga deîs a su pare: «A xi zà parici ani ca meî i va siérvo e i nu vi je mai stralasà oûn vostro ùrdane, e i nu m’avì dà mai un cavrito ca i me lo aviso da guódi cui ma amixi; ma adiéso ca xi vignoû sto vostro feîo, ca uó squantrinà doûto el suójo cun scruve, e avì masà oûn vadiél graso». Ma su pare ga deîs: «Feîo, teî ti son senpro con meî, doûto quil ca i jé, xi tuójo. Ma a gira da gioûsto da frajà e fà festa, parchì stu tu frà al gira muórto e el xi rasusità, el sa gira piérso e el sa uó catà».
In questo video, infine, si può sentire l’istrioto dalla viva voce di un suo parlante, il professor Libero Benussi:
Bibliografia
- Karl Jaberg, Jakob Jud, Sprach und Sach-Atlas Italiens und Südschweiz, 1928-1940 (i dialetti di Dignano e Rovigno si trovano ai punti 397 e 398)
- Mirko Deanović, Avviamento allo studio del dialetto di Rovigno d’Istria, Università di Zagabria, 1954
- Enrico Rosamani, Vocabolario giuliano, Trieste, LINT, 1958
- Giovanni Andrea dalla Zonca, Vocabolario dignanese-italiano (a cura di Miho Debeljuh), Trieste, LINT, 1978
- Marco Doria, Grande dizionario del dialetto triestino – Storico Etimologico Fraseologico, Trieste, Edizioni Il Meridiano, 1987
- Flavia Ursini, Franco Crevatin, Istroromanzo, in Lexicon der Romanistischen Linguistik (LRL), vol. III, Tubinga, Max Niemeyer Verlag, 1989
- Ligio Zanini, Cun la prua al vento, Milano, Libri Schweiler, 1993