Chi si occupa anche solo superficialmente di linguistica sa che il rumeno è una lingua romanza. Chi ha avuto la fortuna di visitare la Romania sa bene che i Rumeni sono molto orgogliosi delle loro origini latine, a dispetto dei loro vicini, che parlano tutti lingue slave o ugro-finniche. E chi ha un pizzico di curiosità linguistica avrà sicuramente notato che la lingua rumena, anche se suona in modo un po’ alieno alle nostre orecchie, assomiglia sorprendentemente all’italiano.
Mi sono chiesto: potremmo affermare che la lingua di Vlad l’Impalatore è un dialetto italiano?
Italiano e rumeno: la parola alla dialettologia
Una delle cose, anzi, ormai la cosa che secondo la linguistica italiana “tradizionale” distingue una lingua da un dialetto è la formazione del plurale.
- Se un idioma romanzo ha il plurale sigmatico (ossia con la -s) è una lingua a tutti gli effetti
- Se ha un plurale vocalico, come l’italiano, è banalmente considerato un dialetto.
Naturalmente ho semplificato molto, ma è un fatto che questo parametro sia stato preso molto sul serio, tanto da poter essere definito “la chiave per distinguere una lingua un dialetto italiano”. Tutte le lingue autoctone d’Italia che formano il proprio plurale in modo sigmatico infatti sono riconosciute dallo Stato, mentre quelle che hanno un plurale vocalico non godono di riconoscimento e, invero, anche il solo chiamarle “per nome” provoca reazioni piuttosto dure, sia istituzionali (ricordate la reazione dell’Accademia della Crusca alla legge regionale sulla lingua lombarda?) o popolari (avete mai dato un’occhiata alla pagina Facebook “Glottofobi“?)
A me, personalmente, è sempre sembrata una giustificazione a posteriori per giustificare lo status quo post 482/99, che ha evitato di riconoscere, nel periodo d’oro del leghismo, l’esistenza di lingue separate dall’italiano nella grande maggioranza dei comuni d’Italia. Ma non è sempre stato così.
Il plurale che è solo un plurale
La linguistica italiana nasce con Dante. Nel De Vulgari Eloquentia viene esposta per la prima volta l’idea che l’Italia fosse una singola unità linguistica, seppur molto frammentata al suo interno. Dopo 700 anni, l’accademia italiana preferisce pensare alle lingue d’Italia in questa luce, cioè come sotto-idiomi dell’italiano che sono stati soggiogati dal dialetto fiorentino. Questo a prescindere dal fatto che certe lingue d’Italia sono genealogicamente più vicine alla lingua di Parigi che a quella di Firenze!
Dante inseriva nel novero dei volgari italiani degli idiomi con plurale sigmatico come il friulano e il sardo. Nel corso dei secoli, ai “dialetti della lingua italiana” si aggiunsero il ladino e addirittura il romancio, rendendo i Grigioni mira dell’irredentismo italiano, anche prima che esistesse un vero e proprio irredentismo in senso odierno: l’abate piemontese Ranza, rivoluzionario noto per aver ideato il tricolore d’Alba, nel suo testo di fine ‘700 in cui proponeva un’Italia federale allineata alla Francia napoleonica riteneva che i Grigioni dovessero essere parte di questo Stato.
Una panoramica dei plurali nelle lingue d’Italia
L’argomento del plurale è quantomeno fallace: esattamente come friulano, francese, catalano e portoghese non sono un’unica lingua perché condividono la -s al plurale, è difficile sostenere che chi condivide il plurale vocalico parli necessariamente la stessa lingua.
Non tutti i plurali 482/99 sono sigmatici (almeno al Nord)
Per quanto riguarda i plurali sigmatici delle lingue d’Italia, nel Nord essi convivono con forme spiccatamente cisalpine: per il ladino la Treccani fa un eccellente lavoro nel trattare le comunanze tra forme generalmente nordiche e ladine, per il friulano potete leggere questa lezione dell’ARLeF, ma si trovano esempi non indifferenti come:
- cjaval -> cjavai (Piemontese: caval -> cavaj)
- dint -> dincj (Lombardo: dint -> dincc)
- la lune -> lis lunis (Lombardo alpino: la luna, li luni, forme comunque attestate nel “lombardo comune” almeno fino al 1600)
Anche i dialetti occitani d’Italia ci regalano elementi palesemente comuni con il resto dell’area: sapete come si dice ”tutti” nella stragrande maggioranza di essi? Tuchi. In piemontese e lombardo, per chi non lo sapesse, coesistono le forme tuti e tucc. Nell’occitano più standard, invece, esso è puramente sigmatico.
E non tutti i plurali vocalici sono quelli di Dante
I plurali vocalici delle altre lingue d’Italia non sono certamente identici a quello utilizzato in lingua italiana.
Se per la lingua veneta sostiene la grammatica veneta di S. Belloni:
si può chiaramente vedere come le variazioni delle desinenze, in dialetto, seguono la falsariga dei nomi italiani”.
Nel caso del siciliano, escluse eccezioni, il plurale è sempre in -a a dispetto del genere.
Già il napoletano presenta sì un plurale vocalico (trasformazione, sia al maschile che al femminile, dell’ultima vocale in -e) ma ha anche il plurale metafonetico (mese -> mise, sciore -> sciure), con varie eccezioni, spiegate in modo semplice qui.
Tra le lingue galloitaliche la situazione diventa interessante: tranne per anche dialetti periferici e di transizione, grosso modo tutte le lingue nel plurale femminile sono abbastanza italianeggianti: a -> e/i è normale, anche se il lombardo occidentale fa eccezione rimanendo ordinariamente muto (milanese: la dona -> i don, mentre il novarese utilizza la i: la riga -> i righi).
Passando al plurale maschile si apre un vaso di Pandora: solo il genovese è paragonabile all’italiano: leggiamo infatti nel dizionario genovese di Casaccia, del 1851, che:
Ogni nome del dialetto, che nel sing. avrà desinenza in vocale non accentuata, seguirà nel plurale la stessa regola che nella lingua italiana
Tuttavia, vi sono numerose eccezioni.
Forse saprete che, delle lingue gallo-italiche, il ligure è quella più peculiare, tant’è che qualcuno lo esclude dal novero. E in effetti, passando al “cuore” del dominio linguistico gallo-italico, il plurale -o -> -i, o simili, certamente non scompare, ma diventa quasi una rarità, un’eccezione, potremmo dire un “plurale d’ultima istanza”.
In piemontese, fondamentalmente, vige una semplice regola: l’invariabilità meno che nel caso di -l che diventa plurale in i. Tale regola è in larga parte condivisa col lombardo occidentale, ma non con quello orientale, dove il plurale maschile di -t si fa in -cc, ed esiste una gran sequela di eccezioni e casi particolari spiegata in linea di massima qui che, se trattata in questo articolo, lo renderebbe decisamente lungo: tra essi, c’è da dire, è presente o (o in alcuni casi i) -> i (el treno -> i treni; el governa -> i governi), ma si tratta in molti casi di termini colti o tratti dall’italiano.
Inoltre, in molti dialetti lombardi è presente il plurale metafonetico, esatto, lo stesso che c’è in napoletano, anche se è una caratteristica che si sta riducendo (el mes -> i mis). Ma chi veramente splende in quanto a metafonesi è l’emiliano-romagnolo: prendendo come punto in analisi Bologna, dov’è la forma principale per fare il plurale (fiåur -> fiåur), anche se in alcuni casi rimane la -i (äl gât -> äl gâti).
Il dialetto più orientale dell’italiano
C’è un’altra lingua che, in quanto a plurale, è più simile all’italiano di quasi tutte quelle che abbiamo analizzato: il rumeno.
Il plurale rumeno è puramente vocalico, al maschile sempre in -i; al femminile in -e o in -i a seconda della vocale al termine. Certo, il rumeno ha anche il genere neutro, con regole tutte sue, ma fin qui, ha sicuramente più diritto ad essere considerato più italoromanzo delle lingue di mezza Italia!
Se ciò può sembrare un mero esercizio intellettuale, è bene ricordare che in Istria, terra linguisticamente legata all’Italia a livello storico, esiste una minoranza che parla una lingua sorella del rumeno, anch’essa con un plurale vocalico, seppur non identico a quello del dacorumeno. Se l’Istria fosse rimasta italiana, l’istrorumeno sarebbe stato riconosciuto come lingua di minoranza o meno?
E’ sorprendente pensare che, seguendo un criterio di classificazione usato dalla dialettologia italiana “tradizionale”, siamo riusciti a provare che la lingua storica di Bucarest ha più titolo di considerarsi italiana di quella parlata a Milano, Torino, Udine o Bologna. Ma queste conclusioni paradossali sono inevitabili quando si impiega un solo parametro per classificare le lingue nella loro totalità.