Uno dei motivi principali per cui un popolo abbandona la propria lingua tradizionale è la scarsa considerazione associata ad essa. Molte comunità linguistiche d’Italia hanno ceduto alle pressioni dialettofobe, restringendo i contesti sociali in cui usano la lingua locale, e i genitori hanno evitato sempre più l’uso della lingua locale nel rapporto con i figli, ritenendo che la propria lingua fosse qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa di “fastidioso”, o addirittura di “inutile”.
Questo fatto è spesso citato da giornalisti e opinionisti vari come la prova provata che, se le varie lingue d’Italia stanno scomparendo e lo storico plurilinguismo viene lentamente ma inesorabilmente sostituito da un rampante monolinguismo sciacquato nell’Arno, si tratta solo di uno “sviluppo naturale”. La morte linguistica, insomma, sarebbe come la morte di una persona: triste ma inevitabile. Una lingua muore dopo aver fatto “il suo corso”, tutto per via delle leggi di Madre Natura.
Nel caso dell’Italia, ma non solo, si legge spesso che le lingue locali non hanno più una funzione nella società, ed è quindi normale che muoiano. Non è altro che “il ciclo naturale delle cose”.
Ciò di cui si sente parlare molto meno spesso è invece il motivo per cui la funzione di queste lingue è presumibilmente venuta a mancare. Alcuni nominano l’alfabetizzazione, la televisione, e i media in generale come presunti motivi alla base della glottofagia italiana, come se questi mezzi esistessero indipendentemente dalle decisioni di chi li governa, e fossero venuti al mondo monolingui, dialettofobi e glottofaghi per volontà divina.
Ovviamente non è così.
Dietro alla scuola e alla televisione ci sono gli uomini, spesso uomini potenti, che hanno disegnato il sistema scolastico e mediatico prendendo decisioni che sono interamente ed inequivocabilmente politiche ed ideologiche, tra le quali troviamo il becero monolinguismo della lingua toscana in bocca romana che ha lasciato spazio alle altre lingue d’Italia solo quandunque ci fosse la possibilità di deriderle, con il napoletano canaglia, il lombardo arrogante, o il siciliano mafioso.
Decisioni interamente politiche ed ideologiche che hanno esplicitamente e politicamente voluto la totale eliminazione delle lingue storiche d’Italia dalla carta stampata ufficiale, anche quelle lingue che, come il veneto, erano state per secoli non solo lingue di corte ma anche lingue amministrative, riempendo documenti ufficiali secoli prima che il Manzoni si convincesse delle capacità detersive dell’Arno.
Decisioni interamente politiche ed ideologiche che hanno esplicitamente e politicamente negato l’inserimento delle lingue storiche d’Italia nel sistema scolastico, nonostante l’insistenza e la lungimiranza del grande linguista Graziadio Isaia Ascoli e di grandi pedagogisti del calibro di Giuseppe Lombardo Radice, e nonostante esistesse materiale didattico bilingue italiano-lingua locale di alta qualità, come per esempio il Vocabolario milanese-italiano del Cherubini, o il Vocabolario dell’uso abruzzese di Gennaro Finamore.
Decisioni interamente politiche ed ideologiche che hanno continuamente sostenuto l’umiliazione di generazioni di bambini italiani la cui unica colpa è stata quella di avere madri che sciacquavano i panni nel Ticino o nel Volturno.
Decisioni interamente politiche ed ideologiche che, con la scuola prima e con la radio e la televisione poi, hanno perpetrato e perpetrano tuttora una sistematica inoculazione della vergogna che non ha nulla a che fare con Madre Natura e tutto a che fare con una artificialissima ingegneria sociale.
Perché non c’è alcuna volontà divina secondo la quale la scuola debba prima punire e poi ridicolizzare chi parla una lingua diversa da quella arbitrariamente scelta da un gruppo di aristocratici oscurantisti che si auto-concessero il diritto di decidere come doveva parlare il rimanente 95% della popolazione.
E’ ineccepibile che la decisione di barrare le porte della scuola ad un plurilinguismo millenario è antistorica per definizione, e quindi una delle cose più artificiali che esistano.
E’ ineccepibile inoltre che un sistema scolastico che si è da sempre ostinato a parlare ed insegnare solo ed esclusivamente il dialetto toscano (anche se con il rebranding di “lingua italiana”) a bambini non toscanofoni non ha nulla di naturale.
Così come non c’è nulla di naturale nello spingere i genitori a non parlare la loro lingua madre con i propri figli. Semmai, parlare la propria lingua madre con i figli è la cosa più naturale che esista, mentre parlare loro una lingua imparata attraverso le bacchettate e i quiz di Mike Bongiorno è tanto artificiale quanto grottesco.
E’ ovvio dunque che il procedimento che sta portando la morte della diversità linguistica in Italia ha ben poco in comune con la presunta “morte naturale” e molto con una condanna a morte.
Ed è così che le lingue d’Italia si trovano vittime di quel tiranno medievale che, dopo aver sottratto cibo ed acqua al condannato per intere settimane, si ritiene assolto davanti ai sudditi e a Dio perché – dopotutto – il poveretto è morto di “cause naturali”.
La Repubblica di Venezia usò in parte il veneto, ma anche il toscano e il latino nei documenti ufficiali. Anche alcune varianti di sardo ebbero uso amministrativo. Ma la maggior parte dei “volgari” d’Italia restarono idiomi parlati, affiancati a latino e poi all’italiano (il volgare toscano che fece carriera), il quale si diffuse non con le armi (come castigliano o francese) ma tramite i letterati e la Chiesa. La morte naturale è purtroppo la vera causa. I miei genitori (70) parlavo dialetto cremasco da bambini, da adolescenti e da adulti, e così i loro genitori e i loro nonni. Io so parlare il dialetto ma gli amici e mia moglie non lo capiscono. La diglossia dialetto a casa e in paese e italiano per il resto si è persa (in alcune regioni più di altre anche per i flussi migratori). Le parlate di Corsica hanno fatto la stessa fine: hanno resistito tra le mura domestiche fino a 30 anni fa, poi un rapidissimo arretramento. Il Fascismo non riuscì ad uccidere i dialetti, perché è molto difficile decidere di uccidere una lingua e riuscirci. E ora che tutti vogliono proteggerli, stanno scomparendo da soli. La teoria della morte naturale, al di là di ogni complottismo, è quella più plausibile.
Il problema è che un passaggio linguistico imposto con cose bellissime come bacchettate sulle mani, umiliazioni e falsità è naturale quanto sparare nelle gambe ad un contadino di uno stato non sociale e quando muore di stenti affermare che sia stata una morte naturale.
Secondo me la tesi della morte “indotta” non contaddice quella della morte “naturale”, perchè stiamo parlando di fenomeni complessi, sui quali incidono molti fattori.
E’ vero che lo stato unitario italiano ha scoraggiato l’uso dei dialetti e stigmatizzato i parlanti, ma è anche vero che le lingue regionali italiane sono sempre state in posizione di debolezza rispetto al Toscano, che è stato riconosciuto come varietà linguistica alta sostanzialmente in tutto il Paese fin dal ‘300, e di conseguenza le parlate locali (tranne forse il Piemontese) sono sempre rimaste lingue funzionalmente limitate, adatte alla comunicazione quotidiana e ricche di termini legati all’agricoltura, ma purtroppo molto carenti negli ambiti culturali e scientifici.
Ma soprattutto è mancata una consapevolezza forte dell’identità autonoma di queste lingue, che sono sempre rimaste subaltene rispetto al Latino prima e al Toscano poi.
Nulla al mondo avviene per caso, e di ogni fenomeno si possono individuare le cause, però la tesi del “complotto dialettofobo” semplifica eccessivamente la realtà.
A mio parere, il rapido declino dei “dialetti” nel secondo dopoguerra, può essere spiegato mettendo insieme diverse cause:
– Le politiche linguistiche repressive attuate dal Fascismo avevano prodotto una genarazione che più di quelle precedenti si vergognava del “dialetto”.
– L’illusione da parte delle classi medio-basse di potersi emancipare adeguandosi ai comporetamenti della borghesia già in buona parte italofona.
– La diffusione di teorie pedagogiche antiquate che vedevano nell’uso del “dialetto” un impedimento all’apprendimento corretto dell’Italiano.
– L’industrializzazione che intaccava sempre di più lo stile di vita contadino e popolare a cui le lingue locali erano strettamente legate e l’influenza culturale delle grandi città sempre più italofone.
In generale sono abbastanza d’accordo, tranne che su un punto. Le lingue regionali non erano usate solo dal popolino, ma da tutta la società, anche dai più ricchi. Senza scomodare i Savoia che parlavano in piemontese, ci sono ampissime testimonianze dell’uso delle diverse lingue locali da parte dell’élite lombarda, veneta, genovese, siciliana, eccetera. Ovviamente i ricchi parlavano di discorsi da ricchi, non dell’agricoltura e del lavoro artigianale: usavano quindi un registro ‘alto’ della stessa lingua che parlavano i loro servi; magari un po’ italianizzato e ricco di cultismi, ma comunque un registro della lingua locale. Il problema fu che non se ne resero conto neppure loro, i ‘sciori’, del potenziale della propria lingua madre, e appena poterono se ne sbarazzarono come se fosse la scabbia.
Nel quadro dei dialetti italiani, quelli veneti avrebbero avuto la possibilità di dar vita a una lingua se la Repubblica di Venezia avesse imposto il veneziano nei territori che dominava.
Invece a Venezia si stampò nel Seicento il primo vocabolario dell’Accademia della Crusca, e veneziano era Bembo che tanto fece per l’affermazione del fiorentino letterario come lingua italiana.
Quei veneti che idolatrano la Serenissima e che al tempo stesso si lamentano per l’abbandono dei dialetti, dovrebbero cominciare a farsi qualche domanda.
la lingua italiana come pidgin per amalgamere e rendere mutiamente comprensibili i dialetti locali è essenziale , fisgraziatamente i rampante monolinguismo purtroppo con lárno ha sempre meno a che vedere e invece N risciacquato nel tamigi e nell’hudsion