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Il giudeo-italiano: le lingue degli Ebrei in Italia

by Pietro Cociancich

Giudeo-italiano è un termine convenzionale usato per definire la gran varietà delle parlate utilizzate dagli ebrei italiani per molti secoli, e oggi sostanzialmente estinte.

Breve storia degli ebrei italiani e delle loro lingue

Le origini della presenza ebraica in Italia

Teodosio I, l’imperatore che sancì l’ufficialità del cristianesimo.

La presenza ebraica in Italia è antichissima, e risale ai tempi della Roma repubblicana, forse ancora prima che Pompeo conquistasse la Giudea.

In tutte le città dell’impero erano presenti comunità (più o meno grandi) e sinagoghe. La comunità romana era sicuramente fiorente, ma ci sono attestazioni anche in zone periferiche, come Brescia.

Al tempo, la lingua degli ebrei d’Italia era il greco (lingua colta delle regioni orientali) o il latino. Non ci sono attestazioni dell’uso parlato dell’ebraico o dell’aramaico.

Il rapporto con l’autorità imperiale ebbe alti e bassi, e le ripetute rivolte in Giudea (nel 70 d.C. e nel 131) ne sono una prova. Tuttavia, solo raramente gli imperatori discriminarono o perseguitarono gli Ebrei. Essi erano cittadini romani alla pari di tutti gli altri.

Prime discriminazioni

La situazione cambiò nel IV secolo, con l’affermarsi del Cristianesimo.

La situazione per gli Ebrei divenne molto più critica, e ci furono numerosi casi di assalto a comunità ebraiche, spesse incoraggiate da vescovi (come Sant’Ambrogio). Nonostante ciò, nemmeno Teodosio il Grande (che nel 380 rese il cristianesimo religione ufficiale dell’Impero) pensò mai di bandire il culto ebraico, al contrario di quelli pagani.

Nei fatti, i cristiani si trovavano di fronte a un dilemma: condannare gli Ebrei avrebbe voluto dire rinnegare le proprie radici storiche e religiose; esaltarli, d’altro canto, avrebbe vanificato la rivoluzione cristiana. Fu Sant’Agostino a trovare un compromesso: come testimoni della prima Alleanza, i giudei avevano diritto a esistere; tuttavia era da biasimare il fatto che non si convertissero al Vangelo.

Questa, in fondo, fu la ragione per cui gli Ebrei, al contrario dei pagani e degli eretici, poterono sopravvivere nell’Europa cristiana, nonostante patimenti e discriminazioni di ogni tipo.

Progressivamente, gli Ebrei vennero fatti allontanare da ogni luogo e incarico pubblico, e a essi venne lasciata solo l’iniziativa privata, come i banchi di prestito, il commercio o il mestiere di medici.

Gli imperatori romani continuarono ad avere un atteggiamento ambiguo nei confronti degli Ebrei: se da una parte li discriminavano, dall’altra condannavano gli atti di violenza nei loro confronti.

Il Medioevo e le prime attestazioni del giudeo-italiano

Il pontificato di Gregorio Magno fu abbastanza favorevole agli ebrei rispetto a quello di molti papi successivi.

Alla caduta dell’Impero Romano, gli Ebrei erano ancora diffusi in tutta Italia. La loro situazione migliorò abbastanza ai tempi del regno di Teodorico, e questa fu una delle ragioni per cui gli ebrei parteggiarono per i Goti ai tempi della guerra contro l’imperatore Giustiniano.

Sotto il dominio bizantino, la condizione degli Ebrei precipitò di nuovo: l’imperatore Giustiniano era promotore di un forte centralismo giuridico e religioso. Dunque si adoperò per spogliare gli Ebrei di ogni residuo privilegio e autonomia, e si spinse a vietar loro l’uso dell’ebraico come lingua liturgica.

Anche il rapporto con i Papi fu molto complesso: di fatto, i pontefici si assunsero il compito di “protettori” degli Ebrei, passando da atteggiamenti tolleranti (come quello di Gregorio I Magno) a politiche molto più discriminatorie (come quelle di Innocenzo III). Alcuni Ebrei convertiti fecero carriera nell’aristocrazia romana: l’antipapa Anacleto II appartenne alla famiglia dei Pierleoni, di origine ebraica.

Nella Sicilia sotto la dominazione araba (827-1061) gli Ebrei erano trattati come i Cristiani, ma non potevano servire nell’esercito e dovevano indossare indumenti particolari per essere riconosciuti.

In generale, nel primo Medioevo gli Ebrei preferirono stabilirsi nelle regioni del Centrosud, di cui acquisirono i caratteri linguistici.

Le prime attestazioni del giudeo-italiano sono del XIII-XIV secolo, e sono spesso volgarizzamenti della Bibbia. La lingua utilizzata appare come una sorta di koinè centromeridionale.

Ecco una traduzione in giudeo-italiano di un brano del Libro di Amos (capitolo 2, versetti 1-2; in corsivo gli ebraismi):

Così disse Adonai [Dio]: “Sopra li tre ribellii de Moav e sopra li quattro non farò tornare esso: sopra l’ardere suo li ossa del re de Edom per calcinare la casa sua con essi. E accenderò il foco in Moav, e divurerà li palazzi de Keriod e morirà nel romore di Moav, con trepito e con voce de sciofar [corno].

Si può notare come la costruzione delle frasi, più che la sintassi romanza, ricalchi quella ebraica.

L’età moderna

Insomma, per tutto il Medioevo gli Ebrei vissero in una situazione profondamente ambigua: erano dentro alla società cristiana, ma fuori dalla Chiesa (al contrario degli eretici, cristiani ma scomunicati).

Nonostante venisse garantita loro la sopravvivenza (in un misto di protezione, dipendenza e discriminazione da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche), continuarono a subire persecuzioni periodiche e accuse infamanti.

Filippo II d’Asburgo continuò l’opera dei suoi antenati Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, espellendo dai suoi reami tutti gli Ebrei non convertiti.

In questo periodo, abbiamo diverse attestazioni della lingua letteraria giudeo-italiana: questo è dovuto sia ai testi liturgici (come prediche, libri di preghiera, eccetera), ma anche a fonti cristiane, quali verbali di processi e dichiarazioni in atti notarili.

Inoltre, il teatro rinascimentale (che usava la variazione linguistica a fine comico) ci presenta alcuni saggi della lingua usata dagli Ebrei, spesso con intenti parodistici. Ecco per esempio una citazione dall’Anfiparnaso del modenese Orazio Vecchi (1550-1605):

O Samuel Samuel,
venit à bess, venit à bess,
Adanai [ahimè!] che l’è lo goi [non ebreo]
ch’è venut con lo moscogn [pegno]
che vuol lo parachem [denaro]
l’è sabbà [sabato] cha no podem.

La situazione per gli Ebrei italiani mutò ancora nel corso del XVI secolo. Nei territori sotto il dominio spagnolo iniziò un’opera di conversioni forzate ed espulsioni. Tra il 1540 e il 1590 gli Ebrei vennero espulsi da tutti i territori italiani sotto la corona spagnola, dalla Sicilia al Ducato di Milano.

Iniziò dunque una massiccia migrazione di Ebrei dal Sud verso il Centronord. A questi si aggiunsero molti Ebrei spagnoli e portoghesi (anch’essi espulsi da Filippo II), che spesso trovarono rifugio a Livorno.

I ghetti e la stabilizzazione della lingua

Alla fine del Cinquecento, dunque, la presenza ebraica in Italia era confinata nei seguenti Stati:

  • ducato di Mantova
  • ducato di Modena e Reggio
  • granducato di Toscana
  • repubblica di Venezia
  • ducato di Ferrara (dal 1598 sotto il dominio pontificio)
  • stato della Chiesa
  • ducato di Savoia
  • ducato di Milano (ma solo nella città di Alessandria)

Anche in questi territori, tuttavia, gli Ebrei furono soggetti a pesanti discriminazioni, e spinti a vivere solo in determinati quartieri delle città, chiamati ghetti.

Uno scorcio dell’antico ghetto di Roma.

I ghetti, per giunta, erano presenti solo in alcune città degli Stati, e quindi la libertà di movimento e di residenza degli Ebrei era fortemente ridotta: per esempio, gli Ebrei nei domini pontifici potevano risiedere solo a Roma o ad Ancona.

Questo evento fu determinante per la formazione del giudeo-italiano per come lo conosciamo. Difatti, la stanzialità delle comunità (un tempo molto più dinamiche) determinò una cristallizzazione della lingua.

Gli Ebrei si trovarono a parlare una varietà della lingua locale (es. il piemontese, il veneto, il toscano) molto più conservativa di quella dei  concittadini cristiani, e con un forte apporto linguistico “colto” dell’ebraico liturgico e dell’italiano dell’antica koinè letteraria.

L’età contemporanea e l’erosione linguistica

Carlo Alberto di Savoia, che diede il nome a quello Statuto Albertino che garantì la libertà religiosa agli Ebrei italiani.

Una nuova svolta nella storia degli Ebrei d’Italia arrivò con la stagione rivoluzionaria e risorgimentale. Se già ai tempi della Rivoluzione Francese (1789) era stata proclamata l’uguaglianza di tutti i cittadini, anche lo Statuto Albertino (1848) sancì la libertà di culto.

Gli Ebrei, come i protestanti valdesi, furono tra i più entusiasti sostenitori della causa dell’Unità d’Italia.

Con l’Unità, iniziò la progressiva assimilazione degli Ebrei italiani con il resto dei loro concittadini. Questo determinò, come controindicazione, un rigetto dell’antica parlata locale, che a molti israeliti ricordava i tempi bui del ghetto e delle discriminazioni.

Una testimonianza di questa tendenza viene dal verbo livornese sbagittare, cioè “perdere la calma e iniziare a parlare in giudeo livornese anziché in italiano”. Tra i critici più decisi di questo atteggiamento ci fu Umberto Cassuto, che per primo iniziò uno studio sistematico dell’eredità linguistica del giudeo-italiano.

Nel corso del XIX e del XX secolo ci furono alcuni fattori sociali che portarono alla scomparsa quasi completa delle parlate giudeo-italiane:

  1. la migrazione interna, che portò molti Ebrei a lasciare le vecchie comunità e a stabilirsi in città nuove
  2. la mescolanza con altri Ebrei nelle nuove comunità, a volte provenienti anche da Paesi esteri
  3. i matrimoni misti con persone appartenenti ad altre religioni
  4. un progressivo secolarismo e allontanamento dalle tradizioni ebraiche

A questi fenomeni si deve aggiungere la terrificante opera di sterminio ad opera dei nazisti (aiutati dai fascisti) tra il 1943-1945, che annientò circa il 13% della popolazione ebraica italiana e determinò la fuga e la clandestinità per tutti gli altri. La Shoah, d’altronde, contribuì a sradicare per sempre anche le comunità che in Europa parlavano lo yiddish e il giudeo-spagnolo.

Il famigerato ingresso ferroviario del lager nazista di Auschwitz, simbolo della tragedia della Shoah. Nel corso di due anni (1943-1945) vennero uccisi 7.500 ebrei italiani, insieme ad altri milioni di altri ebrei europei.

Nel Secondo Dopoguerra, gli Ebrei superstiti proseguirono il loro processo di assimilazione con gli altri italiani, condividendo gli stessi processi di perdita della propria lingua locale. Unica eccezione fu la minoranza che decise di trasferirsi in Israele, e che adottò dunque l’ebraico come nuova lingua.

Al giorno d’oggi, quindi, solo pochissime persone hanno memoria dell’uso vivo del giudeo-italiano, che è destinato a estinguersi del tutto.

L’UNESCO censisce nel suo Atlante Mondiale delle Lingue in Pericolo anche le parlate ebraiche (col nome, generico e scorretto, di yiddish).

Caratteristiche del giudeo-italiano

Come tutte le altre lingue della diaspora ebraica, anche le varietà giudeo-italiane hanno alcune costanti:

  • presenza (diretta o indiretta) dell’ebraico
  • tendenza all’arcaismo rispetto alla lingua del luogo
  • presenza di “relitti” di situazioni linguistiche legate ai luoghi abitati in precedenza

Le ultime due caratteristiche le vedremo soprattutto nei paragrafi dedicati alle varietà regionali.

Il ruolo dell’ebraico

Questa una citazione da un libro religioso di area piemontese:

Li nostri ḥaḳayim [saggi] esorteno e comandeno che tute quelle persone quali faranno tefillah wetešuah weẓedaqah [preghiera, penitenza, carità] haverano sempre beraḳah wehazlaḥak in tuti le ‘asaqym [affari] comme dice il pasūq [versetto]: «‘Ašreka a te in questo mondo e poi vita eterna in gbh [gan ‘eden ba ‘ōlam habbà = il paradiso del mondo a venire]».

È stato ipotizzato che molti ebraismi in uso nel parlato (per esempio a Modena) sostituissero nomi “tabù”, di cui possiamo individuare alcune categorie:

  • la morte: pégor (morto), pigheriar (morire), avel (persona in lutto), avilud (lutto), misvà (funerale), bed akaim (cimitero)
  • l’autorità: meleh (re), ghevir (signore), tafsan (guardie)
  • pericoli: satan (diavolo), gnain (malocchio), macà (disgrazia), tafus (prigione)
  • tristezza: pahad (paura), bahayà (piangere), nišhat (povero)

Alcune varietà regionali

Piemonte

Gli Ebrei sono presenti in Piemonte da molto tempo, ma la prima attestazione di una loro parlata risale a un volgarizzamento del XVI secolo del Libro di Ester, scritto in una koinè settentrionale che appare venata di piemontesismi.
Solo nel XIX secolo appare però una documentazione più consistente: tuttavia è da notare che i primi testi sono parodie scritte da non ebrei, come la canzone La gran bataja dj’abrej ëd Moncalv.

Si ha anche una piccola produzione poetica in giudeo-piemontese, che spesso fa leva sul sentimento di nostalgia delle generazioni più anziane, e sul timore (fondatissimo, come abbiamo visto) che la libertà appena acquisita porti alla scomparsa delle tradizioni ebraiche.

Ecco un esempio dal componimento J’ero mej ij temp passà:

Chi lo maé – son un paté;
adir bimlukà – son impiegà;
fòra ëd ghet soma pien ëd frust,
dan ancora l’Ebreo frust;
tant da Pessac che da camess,
na clalà a col progress
che bel gust dì la Gadà:
j’ero mej ij temp passà!

Si noti che chi lo maé è il cantico pasquale Ky lō na’eh (“A Lui rivolgeremo le nostre lodi”); Gadà è l’Haggadah; Camess è l’adattamento piemontesizzante di ḥameẓ (“cibo lievitato”).

Nel suo libro Il sistema periodico, Primo Levi ci fornisce alcune testimonianze preziose sul giudeo-piemontese.

Il primo a darci una raccolta sintetica ma ricca del giudeo-piemontese è Riccardo Bachi; successivamente, abbiamo alcune pregevoli testimonianze anche da Primo Levi.

Dalle testimonianze linguistiche a nostra disposizione possiamo notare che il giudeo-piemontese aveva una configurazione simile alla koiné letteraria, ma con alcuni tratti orientali (monferrini). Tra questi:

  • fat, stat anziché fait, stait
  • dsissa (dicessi) anziché dseissa
  • fasiva, godiva (facevo, godevo) anziché fasìa, godìa
  • mojer (donna, moglie) anziché fomna
  • sochì (ciò) anziché sossì
  • nenta anziché gnente
  • nsun (nessuno) anziché gnun
  • fradel, strada anziché frel, strà
  • j’ho (io ho) anziché j’heu o j’hai
  • sògn anziché seugn

Una differenza importante è poi la presenza della negazione preverbale (non veui = non voglio) anziché postverbale, tipica del piemontese moderno (i veui nen).

Molte parole ebraiche sono dotate di suffissi simil-piemontesi per il femminile:

  • hhajat (sarto), hajjateussa (sarta) <- ebraico ḥayyaṭ
  • meleh (re), meleheussa (regina) <- ebraico meleḥ
  • ben (figlio), benà (figlia) <- ebraico bēn
  • ghevir (padrone), ghevirà (padrona) <- ebraico geḇōr (uomo potente e forte)
  • haver (domestico), havertà (domestica) <- ebraico haḇer (compagno)
  • mamzer (uomo spregevole), mamzertà (donna spregevole) <- ebraico mamzer

Mantova

Gli ebrei erano presenti a Mantova almeno dal 1415. Grazie agli auspici dei Gonzaga, poterono crescere di numero e vivere con una certa tranquillità nel Ducato (tranne nel biennio 1629-1630, quando vennero banditi dalla città in seguito al saccheggio delle truppe imperiali). Nonostante la presenza di un ghetto, Mantova fu uno dei fulcri della cultura ebraica italiana.

Il giudeo-mantovano presenta le seguenti differenze fonetiche rispetto alla parlata dei cristiani:

  • mancanza di [y]: dunque mur, dur anziché dür, mür
  • mancanza di [ø]: dunque còr, tòr (“cuore, prendere”) anziché cör, tör
  • conservazione di vocali atone cadute nel mantovano: vedèl, messér, vecion (vitello, suocero, vecchione), anziché vdèl, msér, vcion
  • preferenza di [e] rispetto ad [a] in posizione atona: el, pader, liber (il, padre, libro) anziché al, padar, libar

Dal punto di vista morfologico:

  • nu, vu (noi, voi) anziché nüaltar, vüaltar
  • la seconda persona singolare ha come desinenza -et (come in lombardo comune): ti pianşet anziché ti at pianşi
  • la prima persona plurale ha come desinenza -ém: nu pianşém anziché nüaltar a pianşéma
  • la terza persona plurale è diversa da quella singolare (a differenza del mantovano cittadino): lor pianşen anziché lor i pianş
  • manca il pronome verbale (tipico delle parlate galloitaliche): mi pianşi, ti pianş, lu pianşa anziché mi a pianşi, ti at pianşi, lu al pianş
  • nu sim (noi siamo) anziché nüaltar a séma
  • nu gh’avém (noi abbiamo) anziché nüaltar a gh’éma
  • mi gh’aveva (io avevo) anziché mi a gh’eva
  • la negazione è preverbale, e a volte doppia: non ghè (miga) fred anziché a gh’è mia fred

Per quello che riguarda il lessico, notiamo che alcune parole ebraiche vengono adattate ai suffissi romanzi:

  • ben -> bena (figlio, -a)
  • ghiben -> ghibena (gobbo, -a)
  • lachtir (andarsene)
  • a’inar (guardare <- ayin “occhio”, cf. giudeo-piemontese ainé)

Ci sono poi slittamenti di significato:

  • mirsciol (guaio) <- miḳšol (ostacolo)
  • misva (opera buona) <- miṣwā (precetto)

Il che succede anche per le parole latine, come scòla che assume il significato di “sinagoga”.

Modena

La cosa più interessante del giudeo-modenese era una pronuncia diversa (forse più conservativa?) rispetto alla varietà in uso da parte dei cristiani.

Vediamo l’evoluzione dal latino volgare:

  • CATĒNA -> cadéna (mod. cadéina)
  • CĒRA -> céra (mod. zira)
  • CĬNĔRE -> séndra (mod. zandra)
  • FĪBŬLA -> fibia (mod. fébbia)
  • FŪMU -> fum (mod. fómm)
  • LĔPŎRE -> lèvra (mod. lévra)
  • LĪMU -> lima (mod. léma)
  • MĀRE -> mar (mod. mèr)
  • NĀSU -> nas (mod. nès)
  • PŌMU -> póm (mod. påmm)
  • *POTĒRE -> podér (mod. pudèir)
  • PŪLĬCE -> pulgh (mod. pólga)
  • SCĀLA -> scala (mod. schèla)
  • ŬNGĔRE -> unzer (mod. ónzer)
  • ŪVA -> uva (mod. óvva)
  • VĪNU -> vin (mod. véin)
  • VĪPĔRA -> vipra (mod. véppra)

In certi casi invece il giudeo-modenese sembra avere una maggiore innovazione:

  • CRŬCE -> cròs (mod. crós)
  • HŌRA -> òra (mod. óra)

Dal punto di vista del consonantismo, abbiamo una desonorizzazione delle consonanti finali:

  • VĪVU -> vif (mod. viv)

Come a Mantova, non si hanno i tipici pronomi “clitici” delle persone verbali:

  • vagh anziché a vagh
  • sarà content anziché al sarà cuntéint

La negazione è solo preverbale:

  • un gh’è post anziché an gh’è brisa post

Anche in questo caso, non è chiaro se tali caratteristiche sono da far risalire a una maggiore conservatività, all’influenza dell’italiano o ad altri fattori.

Ferrara

Del giudeo-ferrarese si sa poco, perché le ricerche su esso furono compiute in una fase già avanzata di decadenza e oblio della varietà.

Sembra comunque che gli ebrei di Ferrara, Cento e Lugo parlassero in modo simile.

Si è notato che, rispetto al ferrarese dei cristiani, il giudeo avesse alcuni tratti più “romagnoli”, come il passaggio di A tonica ad E, e una maggiore dittongazione.

Un altro aspetto rilevante è poi quello dei relitti linguistici di origine meridionale. Essi sono sia di tipo fonetico (es. vener, canela anziché vender, candela) che di tipo lessicale (es. crè, poscrè = domani, dopodomani).

Le cause di queste occorrenze sono dibattute: si tratta dell’eredità di un’antica origine meridionale della comunità ebraica ferrarese? Oppure di fitti contatti tra le diverse comunità sparse per la Penisola?

Venezia

La popolazione ebraica a Venezia (attestata sin dal decimo secolo) era molto composita: vi erano giudei italiani, tedeschi e levantini, giunti a varie ondate nella città.

Parrebbe che gli ebrei veneziani (molto attivi nella vita cittadina) parlassero lo stesso dialetto dei cristiani, nonostante vivessero isolati da tutti nel quartiere ancora oggi chiamato Ghetto. 

Dalle attestazioni in nostro possesso (per esempio, alcune commedie del primo Novecento), ci vengono tramandati alcuni modi di dire ebraici in un contesto veneto, come:

  • far tarbù [fare silenzio], dal canto biblico al tarbù edabberù gevohā (“Non aggiungete discorsi alteri”)
  • dir seelheianu [ringraziare], da šeheḥeyānū (“che ci hai mantenuto in vita”)
  • cantar i sir amagnalod [cantargliene a uno], da šir hama ‘aloth (“canto di lode”)
  • henec per ti! [va’ alla malora], da ḥéneq (“strangolamento”)

Ci sono inoltre attestazioni di gerghi giudeo-veneziani a Trieste e a Corfù.

Firenze

Del giudeo-fiorentino abbiamo scarse testimonianze, tra cui una commedia dei primi Anni Trenta, dunque scritta in un periodo in cui questa varietà si era già praticamente estinta.

Tra le differenze che si possono notare rispetto al toscano di Firenze, abbiamo:

  • tu dichi anziché tu dici
  • io sò, tu sì, anziché io sono, tu dici
  • semo anziché siamo
  • che io dassi anziché che io dessi
  • creso anziché creduto
  • finischeno, metteno anziché finiscono, mettono
  • el anziché il

Che sono caratteri più o meno diffusi in alcune varietà toscane periferiche. Un’importante differenza morfologica è il femminile plurale in -i (es. li gambi, “le gambe”).

Tra i composti con parole ebraiche, troviamo:

  • channini (“carini”) da ḥen (grazia)
  • dabberare (“parlare”) da dābār (parola; cosa)
  • pachadosa (“paurosa”) da pāḥad (paura)

Livorno: il bagitto

La comunità ebraica livornese è stata, storicamente, una delle più numerose e vivaci: le sue fila vennero ingrossate da un afflusso massiccio di ebrei spagnoli e portoghesi dal 1492 in poi, tant’è vero che per molto tempo la lingua ufficiale dei testi ebraici rimase lo spagnolo (assieme al portoghese e al “ladino”, cioè il giudeo-spagnolo).

Per giunta, a Livorno non esisteva il ghetto, e quindi la popolazione ebraica poteva vivere a contatto con gli altri abitanti ed espandersi. Ancora all’inizio del XX secolo, gli ebrei di Livorno erano il 10% della popolazione cittadina.

Le prime attestazioni ottocentesche sono, ancora una volta, di autori non ebrei: per esempio, l’anonimo autore del poemetto La Betulia liberata (1832).

Questa una breve lista di spagnolismi:

  • broholare (brontolare) <- brujulear
  • duendino (folletto) <- duende
  • corazzone (buon uomo) <- corazon
  • mimo (smorfioso) <- mimo
  • gnecico (insetto) <- necho
  • stampita (lunga camminata) <- estempida
  • tomare (prendere, comprare) <- tomar
  • tragare (inghiottire) <- tragar

Tra gli ebraismi, troviamo:

  • harpearsi (vergognarsi) <- herpà (vergogna)
  • za’areare (angustiare) <- ṣa’ar (angustia)
  • šandato (ebreo che abiura) <- radice šmd (opprimere; cf. giudeo-piemontese samdesse)
  • ganaveare (rubare) <- gannav
  • scelarosa (che fa scene) <- šeralot (scenate)
  • hinnan (buono a nulla) <- ḥinnam (gratuitamente)
  • taḥtanella (piccina) <- tàḥat (basso)

La cosa singolare degli ebraismi del bagitto (questo il nome tradizionale del giudeo-livornese) è che spesso sono mediati dall’influenza spagnola e portoghese.

Infine, troviamo alcune caratteristiche diverse dal toscano “comune”:

  • scempiamento delle consonanti geminate: polo, capèlo, bélo, balare, féro, stòfa
  • passaggio da [p] a [f]: foèta, fètto, rifòso, fafavero
  • passaggio da [v] a [b]: bia, bendicare
  • plurale femminile in -i: per esempio li casi, li scarpi

Similmente al toscano non fiorentino, abbiamo alcuni passaggio di [r] a [l] (gialdino, pultroppo, bilbone) e, viceversa, di [l] a [r] (sardare, artro, quarche, cardo).

Roma

La comunità di Roma è la più antica e documentata tra quelle israelitiche fuori dalla Terra Promessa. Inoltre, a differenza di tutte le altre comunità italiane, non era composta da mercanti, ma da un ceto di tipo “proletario”.

Da quello che possiamo notare, il giudeo-romanesco ha conservato dei tratti della parlata cittadina antica, che sono stati persi dalla comunità cristiana col passare dei secoli.

Per esempio:

  • fuje vs. fugge
  • figlio vs. fijo
  • donni, stradi, scarpi vs. donne, strade, scarpe
  • pronome personale complemento: ésso vs. lui
  • articolo determinativo maschile singolare: ‘o vs. er
  • soreta, madrema, figlievi vs. tu sorella, mi madre, vostre fije
  • ajo vs. ho

Ebraismi passati nelle lingue d’Italia

Alcune parole del giudeo-italiano, passando attraverso i gerghi cittadini e di mestiere, sono diventate di uso comune nei dialetti urbani, e in alcuni casi anche in italiano.
Un caso emblematico è fasullo, passato all’italiano attraverso il romanesco, e che trae origine dall’ebraico pasul (“illegittimo, invalido”).
Stesso discorso si può fare per sciamannato, sempre di origine romana, e probabilmente derivato da siman “segno”, a ricordo del marchio di riconoscimento affibbiato agli Ebrei.

Esempi di lingua

L’incipit della cosiddetta Elegia giudeo-italiana, risalente al XIII secolo e di area centromeridionale:

La ienti de Sïòn plange e lutta;
dice: “Taupina, male sò condutta,
em manu de lo nemicu ke m’ao strutta”.

La notti e la die sta plorando,
li soi grandezi remembrando,
e mo pe lo mundu vao gattivandu.

Dialogo teatrale in giudeo-romanesco:

Dialogo teatrale in bagitto livornese:

Bibliografia e sitografia consultata

  • Lombardia: itinerari ebraici. I luoghi, la storia, l’arte, Venezia, Marsilio, 1993
  • Maria Mayer Modena, Le parlate giudeo-italiane, in AA.VV., Storia d’Italia, Annali (11): gli ebrei in Italia. Vol. 2, Torino, Einaudi, 1997
  • Riccardo Calimani, Storia degli ebrei italiani, Milano, Mondadori, 2013
  • Daniele Vitali, Ancora sull’etimologia di bacajê (pdf)
  • Vermondo Brugnatelli, Spigolature di giudeo-reggiano

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About Pietro Cociancich

Sono nato nel 1991 a Milano, dove sono cresciuto e vivo ancora.

Ho fatto il liceo classico e ho studiato Storia all'Università Statale di Milano.
Sono cresciuto parlando solo italiano, e ho conosciuto il lombardo nel 2007, grazie all'edizione di Wikipedia in questa lingua. Da lì ho iniziato a studiare e imparare quella che io definiscono la mia “lingua adottata”.

Sono stato collaboratore e amministratore della Wikipedia in lombardo per quasi dieci anni.

Sono tra i fondatori del CSPL nel 2013, e dal 2014 ne sono il portavoce nazionale. Nel 2013 ho tradotto il De Vulgari Eloquentia di Dante in lombardo e ho vinto un premio letterario a cura dell'Associazion Linguìstica Padaneisa.

In questo sito mi occupo, tra le varie cose, di descrivere le diverse lingue d'Italia e smontare alcuni luoghi comuni riguardo ad esse.

Mi piace la politica, lo scoutismo, la montagna, l'umorismo da quattro soldi, girare in bici, la musica anni '70, vedere film tamarri al cinema, fotografare col telefonino, fare polemiche, compilare liste come queste.

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