Ha fatto scalpore un articolo di Antonio Gurrado, apparso nei giorni scorsi sul Foglio, dal titolo provocatorio: Perché i veri nemici della lingua italiana sono i dialetti.
Indice
L’articolo e le polemiche
L’articolo si appella all’Accademia della Crusca, che recentemente ha preso posizione nei confronti di un’apparente invasione di anglismi nelle circolari del Ministero dell’Istruzione.
Gurrado sostiene che la Crusca dovrebbe, piuttosto, snidare le persone che, per qualche ora il mercoledì pomeriggio, si riuniscono nella biblioteca di Orino (VA) per parlare nel dialetto locale (come ha raccontato Varesenews il 14 aprile scorso).
Questa affermazione provocatoria di Gurrado è stata accolta molto male, com’era ovvio, nel mondo degli attivisti e dei cultori delle lingue locali. Inoltre ha fatto nascere alcuni articoli di risposta. Per esempio, il sito l’Opinabile ha replicato con il suo Che vergogna Il Foglio: viva i dialetti, linfa vitale della lingua italiana.
Analisi dell’articolo
Leggendo entrambi gli articoli, tuttavia, appare chiaro che il problema è di un altro tipo.
Difatti, il titolo del Foglio è piuttosto fuorviante rispetto al vero contenuto dell’articolo. Gurrado infatti non incolpa il dialetto di insidiare l’italiano; piuttosto ritiene che parlarlo solo qualche ora alla settimana sia una sorta di farsa:
Vedersi due ore per parlare in orinese di mercoledì (ma varrebbe anche se si parlasse in cuneese, in patavino, in frusinate o in nisseno), e poi tornare a vivere in italiano per le restanti centosessantasei ore della settimana, è tanto artificiale quanto un consesso di prussiani tenuto in kiswahili per far bella figura. Serve a un utilizzo decorativo della lingua, la riduce a vezzo; peggio, se si ha intento di preservare le tradizioni locali, la riduce ad archeologia.
Questo non è diverso da quanto sostenuto da molti di noi attivisti delle lingue locali: il folklore, il museo, l’imbalsamazione della lingua non servono e non serviranno mai per tenere viva una lingua in via di estinzione. Tutti gli esperti di rivitalizzazione linguistica sanno che il primo modo per salvare una lingua consiste nel parlarla e usarla come qualcosa di normale.
Tutto a posto, allora? Qual è il problema?
In realtà, forse, Gurrado lascia sottointendere che il “dialetto” non ha futuro fuori dalla biblioteca di Orino, e che quindi bisognerebbe lasciar perdere in toto queste iniziative.
Inoltre, cade nell’errore di considerare la Crusca la “padrona” non solo dell’italiano (il che è falso, perché la lingua appartiene ai parlanti e non alle accademie), ma anche di lingue che non sono l’italiano.
Insomma, l’articolo del Foglio contribuisce a diffondere l’idea che i “dialetti” siano una specie di succursale dell’italiano, da cui dipendono e a cui devono sempre rendere conto. La stessa visione che ha spinto qualche mese fa dei consiglieri regionali lombardi ad appellarsi alla solita Crusca per commentare la legge di tutela sulla lingua lombarda.
Questo punto di vista, d’altronde, è condiviso anche dall’articolo di risposta dell’Opinabile, che considera i “dialetti” quasi solo in funzione del loro contributo alla lingua italiana: come se non avessero diritto a una loro vita autonoma!
Infine, l’autore dell’articolo del Foglio sembra ignorare che la marginalizzazione continua delle nostre lingue è dovuto (oggi come ieri) a un culto ossessivo dell’italiano come unica “lingua giusta”. Questo stereotipo è ciò che confina le lingue locali a essere usate in biblioteca il mercoledì pomeriggio: un danno incalcolabile.
Per concludere
Leggendo questo dibattito, appare chiaro come sia necessario ribadire un concetto chiaro e semplice: i “dialetti” sono lingue diverse dall’italiano. Dal punto di vista storico, esse hanno un rapporto stretto con l’italiano, ma non esclusivo né vincolante.
Le lingue locali italiane hanno diritto a essere parlate senza dover subire per forza il giudizio dell’italiano e della cultura che esso esprime.
Perciò appare fondamentale affrontare il mondo della cultura italiana (stampa inclusa) su questi temi; non è accettabile che nel 2018 il dibattito sia ancora a un livello così basico e superficiale.
D’altra parte, i parlanti e gli attivisti delle lingue locali devono avere il coraggio di riportarle strada, fuggendo dal rischio del folklore e dell’uso occasionale.
Solo in questo modo si potranno rivendicare in modo più convincente i propri diritti linguistici, ed evitare la pubblicazione di articoli dal contenuto così opinabile.
Tutto ciò, comunque, mi ha invogliato a fare un salto a Orino il mercoledì pomeriggio!
A parte che il sito si chiama “L’Opinabile” e non l’informale, bisogna precisare che l’articolo, sebbene insista sul ruolo dei dialetti in rapporto alla lingua italiana – perché in risposta appunto all’articolo di Gurrado che parlava del rapporto tra lingua e dialetti – cita sia il Belli che il Porta, per indicare “con una semplice allusione” la “ricchezza della letteratura dialettale”. E inoltre cita una frase di Pasolini che a rafforzare questo aspetto, che comunque non rappresenta il centro d’interesse dell’articolo. Si direbbe proprio che non si è letto con attenzione; tanto da sbagliare il nome della fonte…
Grazie della risposta.
Chiedo scusa per la svista (ripetuta, ahimè, due volte!), che ho corretto e per la quale non c’è altra giustificazione che la mia sbadataggine.
Per il resto, l’articolo l’ho letto, e rimango convinto che da una parte non si sia inteso l’attacco alla musealizzazione della lingua locale fatto dall’autore del Foglio (questo è davvero uno spunto importante), e dall’altra si continui a considerare l’esistenza dei ‘dialetti’ più che altro in funzione dell’italiano e della sua letteratura; si vedano, per esempio, i riferimenti a Dante, Montale o a Leopardi. Riferimenti dignitosissimi, per carità: ma a nostro parere serve un passo in più, è necessario cominciare a considerare i ‘dialetti’ come cose a sé stanti.
Personalmente poi io sono meno propenso a citare Pasolini, poiché egli tendeva a considerare il tempo dei dialetti finito con la scomparsa della cultura contadina – relegandoli quindi a una posizione subalterna, a una sola epoca e a un solo gruppo sociale, il che è un falso storico.
Dopodiché siamo d’accordo su molti punti, e credo che sia importante ribadire che la guerra tra le lingue (come quella che alcuni difensori dell’italiano compiono contro inglese e lingue regionali).
Spero che il mio grossolano errore non pregiudichi lo svolgimento di un dibattito che, anche alla luce dell’articolo del Foglio, appare sempre più necessario e attuale.
In Ispagna (sì, mi piace usare l’eufonica e euritmica i- prostetica, che molti vorrebbero abolire in nome del presunto principio che ogni variazione dallo standard sia un danno, quasi si trattasse della misura delle spine elettriche) del castigliano s’occupa (sì, mi piace anche apostrofare!) la RAE, ma le lingue regionali sono competenza d’istituzioni specifiche, come la Real Academia Galega. Per la lingua catalana ce ne sono, infelicemente, addirittura due (l’IEC e l’AVL), per motivi politici più che strettamente linguistici (mi par di capire).
Sarebbe largamente auspicabile che anche in Italia i “dialetti” venissero per così dire scorporati dalle competenze della Crusca. E anche che nel mondo accademico l’investigazione (e insegnamento) delle lingue regionali e delle loro letterature venisse scorporato dall’insegnamento della storia, sociolinguistica, geografia linguistica e letteratura dell’italiano, in cui ovviamente i “dialetti” finiscono coll’avere una parte marginale..
I precedenti in altri Paesi ci sarebbero, p.es. in alcune università tedesca la Lingua e Letteratura Bassotedesca hanno siffatta posizione distinta.
Ma tutto ciò è di là da venire…
Quanto alla pretesa ancillarità dei dialetti rispetto all’italiano, ridotti a miniere d’espressività per un loro riutilizzo – decontestualizzato e defunzionalizzato – in italiano, questo mi ricorda l’atteggiamento dell’alto medioevo (ma anche di epoche, considerate meno buie, successive: “quod non fecerant barbari, Barberini fecerunt”!) nei confronti dei monumenti dell’antichità classica, ridotti a cave di belle pietre ornamentali.
G.Pontoglio