E’ risaputo che le parlate gallo-italiche siano tipiche del Piemonte, della Lombardia, della Liguria, dell’Emilia-Romagna e di parte del Trentino, del Veneto, della Toscana e delle Marche (nonché della Repubblica di San Marino, della Svizzera italiana e del Principato di Monaco). Tuttavia, ci credereste che ve ne sono anche in Sicilia? Eppure è proprio così, e in quest’articolo darò una breve introduzione storica e linguistica di quelli che sono chiamati i “Lombardi” di Sicilia.
Qualche chiarimento sul nome
Quando si parla di Lombardi di Sicilia, la parola “lombardo” non va messo in relazione al significato di “abitante o persona originaria della Regione Lombardia”, bensì al senso del latino medievale lombardus, un termine che tra la fine dell’Alto Medioevo e il Basso Medioevo designa un generico abitante dell’Italia settentrionale.
Questo ha creato degli equivoci di classificazione: infatti, Ethnologue classifica l’idioma da loro parlato – il gallo-italico di Sicilia – all’interno della lingua lombarda, e anche il suo codice ISO 639-3 è lmo (sebbene l’Atlas of the World’s Languages in Danger dell’UNESCO lo riporti – giustamente – separato, con il nome di Gallo-Sicilian). Tuttavia, come vedremo, il gallo-italico di Sicilia è una lingua che ha subito un’evoluzione particolare, dovuta sia al contatto con le genti circostanti, sia alla separazione dalla matrice territoriale originaria (non seguendone pertanto gli sviluppi linguistici successivi).
Il perché dei Lombardi di Sicilia
L’origine della presenza di abitanti originari dell’Italia settentrionale in Sicilia risale all’XI° secolo. Prima che fosse conquistata dai Normanni, la Trinacria era – a partire dall’827 – parte della umma islamica: ciò ha fatto sì che lingua, cultura e genti arabo-berbere (e, ovviamente, la religione islamica) si diffondessero in Sicilia. A questi vanno affiancati i greci – presenti sull’isola sin dall’età magnogreca ma rafforzati dal precedente trisecolare governo bizantino, e che durante la dominazione musulmana erano in schiacciante maggioranza nel Val Demone – , e i latini. Questi due gruppi etno-linguistici, di religione cristiana, diventati soggetti ad un potere di matrice islamica, furono ridotti allo status di dhimmi: in altre parole, secondo la shar’ia, ad essi veniva riconosciuto il diritto di praticare liberamente la loro religione, ma d’altro canto erano soggetti a limitazioni di carattere religioso – ad esempio le chiese cristiane non dovevano possedere campanili, anche per non disturbare il richiamo alla preghiera del muezzin – e politico, ed erano soggetti al pagamento della jizya. Era sicuramente un trattamento discriminatorio, ma un passo avanti se si pensa a quello che all’epoca accadeva invece nei paesi cristiani, e dei quali il successivo Regno di Sicilia della monarchia normanno-sveva avrebbe costituito un unicum (anche se va detto che quest’unicum è stato spesso soggetto ad anacronismo in chiave moderna, perché i musulmani al suo interno furono comunque discriminati e spinti – direttamente o indirettamente – all’assimilazione).
Nel quadro etnico, linguistico e religioso della Sicilia musulmana, i latini rappresentavano ormai una minoranza: dal punto di vista linguistico a farla da padroni erano il greco e l’arabo, mentre dal punto di vista religioso la Chiesa romana era praticamente scomparsa sull’isola già da prima della conquista islamica, a seguito della decisione – della quale avevo già un po’ trattato nel mio primo articolo, pubblicato da Pietro Cociancich, dedicato al greco di Calabria – dell’imperatore bizantino Costantino V (r. 741-775) di spostare le diocesi calabro-sicule dalla giurisdizione ecclesiastica del Papa di Roma a quella del Patriarca di Costantinopoli.
Con l’espandersi dell’influenza normanna in Italia meridionale a partire dalla prima metà dell’XI° secolo e con il Concordato di Melfi del 1059 tra Papa Niccolò II (980 ca.-1061) e Roberto il Guiscardo (1015 ca.-1085) – che stabiliva che, qualora i Normanni avessero conquistato la Calabria bizantina e la Sicilia islamica, si sarebbero impegnati a ristabilire il rito latino – , la Chiesa romana vide la possibilità di riappropriarsi di quelle diocesi: la caduta, in Calabria, di Reggio nel 1059/1060, e, in Sicilia, quella di Noto nel 1091, lo resero definitivamente possibile.
In Sicilia, la politica dei nuovi dominatori era chiara: per una più efficace affermazione del potere dei Normanni e della Chiesa di Roma bisognava rafforzare e rendere egemone sull’isola, lentamente ma inesorabilmente, l’elemento latino a scapito di quello greco e di quello arabo, ed è in questo contesto che s’inseriva l’insediamento di genti provenienti dal Nord Italia. Se per il governo l’arrivo di questi nuclei – che rafforzavano nuclei “lombardi” precedenti, risalenti al 1040 circa e giunti in Sicilia come mercenari, comandati da Arduino da Milano (fl. XI° sec.), al seguito del generale bizantino Giorgio Maniace (998-1043) durante la sua spedizione per restituire l’isola all’imperatore d’Oriente – costituivano un’opportunità per rafforzare il proprio potere con genti ad esso fedeli e poste in luoghi strategici, per i nuovi arrivati la Sicilia rappresentava una grossa attrattiva economica: infatti, diversamente da oggi, la Sicilia (con l’Italia meridionale) era una delle zone più ricche del Mediterraneo.
L’esercito di Giorgio Maniace contro gli
Arabi di Sicilia (illustrazione tratta dal
codice Madrid Skylitzes, prodotto in
Sicilia nel XII° secolo contenente
la cronaca dello storico bizantino
Giovanni Scilitze vissuto nel tardo
XI° secolo e ora conservato presso
la “Biblioteca Nacional de España”
di Madrid).
Con la spedizione militare di Maniace
si ebbero i primi nuclei “lombardi” in
Sicilia.
Insediamenti gallo-italici in Sicilia
I Lombardi giunsero in Sicilia in diverse ondate e in diverse occasioni, tra cui, come detto, il nucleo arrivato grazie alla spedizione bizantina di Maniace; il nucleo di genovesi che, sempre nell’XI° secolo, andò a stabilirsi in quella che è la moderna Caltagirone (CT), tanto che al-Idrisi (1099 ca.-1165) – il grande geografo arabo alla corte di re Ruggero II (r. 1130-1154) – nel Kitāb Rugiār la definisce Hisn al-Genūn (“Fortezza dei Genovesi”); una terza ondata fu quella giunta al seguito del piemontese Oddone de Camerana (fl. XIII° secolo) al tempo di Federico II (1194-1250) che ha colonizzato l’attuale Corleone (PA).
Tuttavia, la principale rimane quella approdata sull’isola grazie al matrimonio, nel 1093, del Gran Conte Ruggero I (1031-1101) – conquistatore della Sicilia – con Adelaide (1074-1118) della dinastia piemontese degli Aleramici (che governava una zona compresa tra Liguria e Piemonte che includeva Savona e il Monferrato): quest’ultima avrebbe favorito l’arrivo di moltissimi suoi compatrioti – i quali si insediarono in zone che consentivano l’isolamento dei centri di maggiore resistenza islamica al nuovo dominio (il Val di Mazara e il Val di Noto, Agrigento ed Enna) – , che, a detta dello storico Amedeo Feniello, nei confronti dei musulmani tenevano un atteggiamento brutale, intollerante, e da Crociata.
In tutto, l’afflusso di genti “lombarde” in Sicilia avvenne in un periodo di due secoli, compreso tra l’XI° e il XIII°.
Gli oppida Lombardorum – oppidum è un termine che nei documenti latini della Sicilia dell’epoca indicava i centri minori dell’isola – , espressione che si ritrova nello storiografo Ugo Falcando (fl. XII° sec.), furono molti (e ad essi vanno aggiunte altre località che furono solo parzialmente colonizzate). Tra di essi le attuali: Randazzo (CT), Vicari (PA), Capizzi (ME), Maniace (CT), Nicosia (EN), Piazza Armerina (EN), Novara di Sicilia (ME), Sperlinga (EN), Butera (CL), Aidone (EN), San Fratello (ME).
Il Palio dei Normanni si tiene ogni anno a Piazza Armerina tra il 12 e il 14 agosto.
Il “Palio” è una rievocazione storica della conquista normanna della Sicilia: questa nel video è la “Consegna delle chiavi” – che avviene nel secondo giorno della manifestazione, il 13 agosto – , che rappresenta simbolicamente, come dice il nome, la consegna delle chiavi della città al Gran Conte Ruggero.
La lingua
L’idioma gallo-italico di Sicilia è ancora vivo, occasionalmente o quotidianamente, a Novara di Sicilia, Aidone, Piazza Armerina, San Fratello, Sperlinga, Nicosia, Montalbano Elicona (ME).
Secondo Gerhard Rohlfs (1892-1986), il gallo-italico di Sicilia si sarebbe mantenuto – nonostante alcuni influssi meridionali – relativamente puro. In altre parole, rappresenterebbe in buona sostanza l’italiano settentrionale del XII° secolo.
Alcune delle caratteristiche della lingua che possiamo annoverare sono:
- la dittongazione di /ɛ/ (“e aperta”) e /ɔ/ (“o aperta”) davanti a consonante palatale, che nel Meridione è totalmente assente: ad es. a Sperlinga si ha viɛgnu (“vengo”) e uɔji (“oggi”). In alcuni casi avviene anche in sillaba libera, ad es. Sperlinga fuɔgu (“fuoco”) e San Fratello miɛu (“miele”);
- la sonorizzazione della /t/ intervocalica latina, che ha dato perlopiù come esito /ð/ (come nell’inglese the): ad es., Nicosia poðé (“potere”). Tuttavia, per influenza dei dialetti vicini a volte la fricativa dentale sonora è diventata /r/: ad es., San Fratello saira (“seta”), caraina (“catena”), munera (“moneta”);
- la desinenza della prima persona plurale del presente dei verbi latini in -āre (-āmus) nell’Italia settentrionale si è spesso trasformata in -ēmus: esempi sono l’antico lombardo pensemo, aspectemo, osemo (oggi si ha nel milanese paghèm, andèm), l’antico piemontese celebrem, il veneto parlemo, crepemo, il ligure cantemu, portemu. In questo si allinea il gallo-italico siciliano, visto che ad es. a Nicosia si ha speréma, trovéma;
- l’ipersicilianismo: fenomeno in cui la <-(l)l-> intervocalica si trasforma nell’occlusiva retroflessa sonora geminata /ɖɖ/ per influsso della lingua dominante siciliana: ad es. Nicosia eɖɖa “ella” (cfr. sic. iɖɖa). Tuttavia, il passaggio a /ɖɖ/ va molto spesso oltre, perché è frequente che tutte le <-(l)l-> , anche quelle in posizione iniziale, diano questo esito;
- l’ipergallicismo: è il fenomeno opposto all’ipersicilianismo, e rappresenta un’esagerata accentuazione dei tratti propri. Avviene ad esempio nei dialetti di Nicosia e Sperlinga, i quali mantengono i nessi <-mb-> e <-nd-> (assimilati in <-mm-> e <-nn-> in gran parte dei dialetti siciliani, ma anche in quelli gallo-italici di Piazza Armerina e Aidone) non soltanto nelle parole di origine latina, ma anche in quelle di altra origine. A San Fratello, invece, la /a/ diventa /e/ in tutte le posizioni toniche (mentre, invece, generalmente nel gallo-italico di Sicilia ciò avviene di norma soltanto in posizione tonica prima di una consonante nasale);
- arcaismi lessicali sia di parole piene che di parole vuote: ad es., a Nicosia eo (“io”), dall’antico alto-italiano el. Oggi nell’area gallo-italica originaria – ma anche in quella veneta – el è stato sostituito in gran parte da forme derivate dal dativo latino mihi (cfr. lombardo mì – secondo l’ortografia classica milanese – , piemontese e veneto mi);
- ovvia presenza di sicilianismi: ad es. Piazza Armerina talié (“guardare”, cfr. sic. taliari).
Alcune di queste caratteristiche – e altre di cui non ho parlato – si possono immediatamente trovare nei primi due indirizzi web che ho citato nella sitografia: di particolare rilevanza è il fenomeno della mutola.
Tutela della lingua
Il gallo-italico di Sicilia – esattamente come quello della Basilicata (infatti lì ci sono altre colonie gallo-italiche, risalenti all’età normanna e all’età angioina, che però non ho trattato in questa sede) e il ligure coloniale tabarchino dei comuni di Carloforte e Calasetta della provincia del Sud Sardegna – non è riconosciuto come minoranza linguistica dallo Stato italiano. La ragione è chiara: essendo riconducibile alle parlate del Nord Italia che, ad eccezione del friulano e del ladino, sono considerati semplici “dialetti”, allora per forza di cose per lo Stato anche il gallo-italico di Sicilia è un “dialetto”. Riconoscere il gallo-italico di Sicilia come lingua minoritaria – e inserirlo pertanto nella 482/1999 – avrebbe significato che per logica anche lombardo, piemontese, emiliano, romagnolo e ligure avrebbero dovuto possedere uno status analogo.
Il gallo-italico di Sicilia può essere un argomento in più a favore della tutela delle lingue regionali d’Italia, perché si tratta di un patrimonio culturale e di una testimonianza storica ancora viva di un passaggio di popolazioni che ha contribuito a comporre il complesso mosaico culturale ed etnico della Sicilia, e che non merita pertanto di essere considerato un mero “dialetto”.
In ogni caso – proprio perché rappresenta una testimonianza vivente di storia siciliana – la Regione Sicilia ne dà comunque un riconoscimento, inserendolo nel R.E.I.S. (“Registro Eredità Immateriali della Sicilia”).
Letteratura ed esempio audiovisivo della lingua
Tra i nomi che costellano la letteratura gallo-italica di Sicilia si possono annoverare Antonino Ranfaldi (1868-1945), Carmelo Scibona (1865-1939), Francesco Consoli (1880-1951), Vincenzo Cordova (1869-1943), Remigio Roccella (1829-1916).
Una breve storiella scritta da quest’ultimo autore, intitolata U b’stiamèr (“Il guardiano del bestiame”), può fornirci un esempio audiovisivo della lingua, grazie ad un video disponibile su YouTube, dove questo raccontino viene letto dal dott. Sebi Arena: infatti il dott. Arena fornisce anche la trascrizione e la traduzione dell’aneddoto nella descrizione del video, che per comodità copio e incollo anche in questo articolo, sotto il filmato. Il dialetto è quello di Piazza Armerina:
U B’STIAMÉR
S’ cönta e s’ raccönta, ch ggh’èra ‘n b’stiamér, ch’ mentr pascèa u b’stiàm, truvà ‘n r’ddögg. U p’gghiá e, non savénn chi cosa era, p’rchì non n’avéa vist mai, u cum’nzà a talié cu curiös’ta; mentr c’u taliàva, n’tès ch dintra s’ r’m’nàva; allöra jéu s’ scantà e, parénn’ggh’ armàu, u puzà sövra ‘na prèja, ma s’ccòm u r’ddögg non s’ catamiava du sö post, ‘ncugnà arrèra e, s’nténn c’ dintra s’ ‘r’mnàva ancöra, diss ‘nta jéu stiss: non ggh’ è dubbiu, cöss è n’armàu, ch’ mai n’ höia vist com a cöss. E allöra p’gghià ‘mpuntàggh e, viànn’ggh’lu d’ sövra, u scr’v’ntà. Com u r’ddögg s’ scr’v’ntà, ggh’ n’scìnu tanti roti e rutini e jéu r’stà smarav’gghià pr’chì ggh’ pàrs’nu i buègghi.
Fra d’ tant passà ‘n galantöm e ggh’ cuntà a passàda e quann dd’ galantöm vitt c’ u b’stiamér avèa sb’faràit u r’ddögg, s’ mès a rid e ggh’ diss: “Si veru b’stiamér, hai scr’v’ntàit ‘n r’ddögg ch’ annàva desg pezzi e ch’ öra manc va ciù d’ döi rana”. E u b’stiamér ggh’ r’spunnì: “Davèru? Oh! Ch’ d’accuscì su fàiti i r’ddöggi? E jè, b’stiam’ràzz ch’ sign, l’avèa p’gghiàit p’ n’ armalàzz falòcc!”
“IL MANDRIANO
Si conta e si racconta che c’era un mandriano che mentre pascolava il bestiame, trovò un orologio. Lo prese e, non sapendo cosa fosse perché non ne aveva visti mai, lo cominciò a guardare con curiosità; mentre lo guardava sentì che dentro si muoveva; allora egli si spaventò e, sembrandogli un animale, lo posò sopra una pietra, ma siccome l’orologio non si spostava dal suo posto si avvicinò di nuovo e, sentendo che dentro si muoveva ancora, disse tra sé: Non c’è dubbio, questo è un animale che non ho mai visto come questo! E allora prese una grossa pietra e, buttandogliela sopra, lo schiacciò. Come l’orologio si schiacciò, gli uscirono tante ruote e rotelle ed egli si meravigliò perché gli sembrarono le budella.
Intanto passò un galantuomo e gli raccontò la passata e, quando il galantuomo vide che il mandriano aveva maciullato l’orologio, si mise a ridere e gli disse: Sei un vero bestiamaro, hai maciullato un orologio che valeva dieci pezzi e che ora non vale più di due grani. E il mandriano gli rispose: Davvero? Oh! Così sono fatti gli orologi? E io bestiamaraccio che sono, l’avevo preso per un animalaccio feroce!”
Fonti:
Sitografia
http://galloitalico.altervista.org/
http://www.treccani.it/enciclopedia/comunita-gallo-italica_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/
http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/dirbenicult/info/news/rei/parlata-alloglotta.html
https://www.ethnologue.com/
http://www.unesco.org/languages-atlas/
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