Il galloitalico è da decenni al centro di un paradosso. Nonostante i suoi tratti linguistici galloromanzi che lo uniscono al francese e all’occitano, molti lo associano al gruppo italoromanzo assieme all’italiano, al siciliano e al napoletano.
Nel corso delle mie ricerche ho voluto vederci chiaro, dunque ho studiato a fondo la questione in collaborazione con Lissander Brasca. I risultati dello studio sono stati pubblicati nell’articolo scientifico Revisiting the classification of Gallo-Italic: a dialectometric approach. Qui di seguito troverai un riassunto dei punti principali.
Indice
Il Paradosso del galloitalico
Il galloitalico è un gruppo linguistico che comprende piemontese, lombardo, ligure, emiliano e romagnolo. Queste lingue sono unite da varie caratteristiche comuni, e la linguistica è unanime nell’accettarle come lingue “sorelle” per via delle loro reciproche somiglianze.
Le lingue galloitaliche sono divise dal resto delle parlate italiane dalla linea Rimini-La Spezia. Si tratta di una linea immaginaria che attraversa l’Italia sullo spartiacque degli Appennini. Tecnicamente viene chiamata isoglossa, ossia una linea che delimita l’area di un territorio dove è presente un determinato tratto linguistico comune. Poiché la linea Rimini-La Spezia marca la presenza di una serie di tratti linguistici (e non un unico tratto), viene considerata un fascio di isoglosse.
E qui si arriva al paradosso.
Da una parte, la Rimini-La Spezia è regolarmente accettata come il fascio d’isoglosse più importante nell’intero universo delle varietà neolatine già dai lavori di Bartoli (1936) e Wartburg (1950). Nonostante ciò, molti testi si riferiscono spesso all’insieme delle varietà neolatine d’Italia con il termine “italoromanzo” (includendovi il Galloitalico, nonostante il nome stesso alluda alla sua appartenenza al gruppo galloromanzo assieme al francoprovenzale e all’occitano).
Questo però vorrebbe dire che l’isoglossa più importante non sarebbe la Rimini-La spezia, ma corrisponderebbe invece alle Alpi, dove il presunto italoromanzo confina con il galloromanzo.
Secondo questa congettura, il gallo-Italico sarebbe linguisticamente più vicino alle varietà a sud della Rimini-La Spezia di quanto lo sia all’occitano o al francoprovenzale.
Il paradosso nasce dal fatto che queste due posizioni sono logicamente irriconciliabili:
la Rimini-La Spezia non può essere l’isoglossa più marcata del mondo neolatino e allo stesso tempo essere meno marcata di una presunta isoglossa alpina.
In altre parole, se il galloitalico è linguisticamente italoromanzo, allora la Rimini-La Spezia è un’isoglossa relativamente minore, perché sufficientemente marcata solo per separare varietà all’interno dello stesso sottogruppo (ovvero il presunto italoromanzo “del nord” e italoromanzo “del sud”).
Questa posizione sembra immediatamente insostenibile, perché se fosse vera significherebbe che l’isoglossa che corre tra piemontese e occitano è più marcata della Rimini-La Spezia, cosa che nessun linguista ha mai affermato.
Le Origini del paradosso: due cause concorrenti
Da dove nasce quindi questo paradosso? Com’è possibile che due posizioni così contraddittorie e irriconciliabili siano ancora presenti in alcuni testi di linguistica?
Il paradosso nasce da 2 problemi presenti nello sviluppo della letteratura specialistica.
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Un miscuglio di genealogia e sociolinguistica
Il primo problema riguarda l’uso inadeguato di criteri sociolinguistici misti a criteri genealogici, di cui si è occupato Lissander Brasca nella sua ricerca (Brasca, 2015; 2016).
Come affermato da Brasca, la mescolanza di criteri sociolinguistici a criteri genealogici dà vita a pseudo-classificazioni che sono tassonomicamente nulle nonché scientificamente inservibili.
Parafrasando il lavoro di Brasca, sarebbe come se un biologo affermasse che il cane (C. l. familiaris) e il gatto (F. s. catus) sono più genealogicamente vicini di quanto lo siano cane e lupo perché cane e gatto sono entrambi animali domestici, mentre il lupo è animale selvatico. E’ chiaro che nessuna tassonomia seria può emergere da tali confusioni metodologiche.
Ovviamente non tutta la letteratura specialistica pecca di tali confusioni tassonomiche. Molti ricercatori hanno sviluppato classificazioni secondo i criteri del metodo comparativo, sviluppando tassonomie basate sulla misurazione di innovazioni sistematiche e pervasive.
Questo però ci porta al secondo problema che ha dato vita al paradosso del galloitalico come presunto italoromanzo, ovvero la soggettività inerente nella ricerca qualitativa, di cui la tradizione dialettologica fa parte.
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Soggettività nei criteri di classificazione
L’impronta qualitativa della dialettologia storica ha portato molti dialettologi a fare scelte soggettive di tratti linguistici particolari da includere nella loro analisi. In sostanza, varie proposte di classificazione sono spesso basate su criteri che sono stati fissati dalle scelte personali degli autori.
Per esempio, Pei (1949) propose una classificazione di alcune varietà neolatine basata esclusivamente sullo sviluppo delle vocali toniche.
Politzer (1947) diede importanza particolare alla conservazione sincronica del plurale sigmatico (il plurale in -s) nella sua classificazione delle varietà neolatine d’Italia.
Non sorprende quindi che le classificazioni che emergono sono spesso radicalmente diverse, a seconda dei tratti prescelti e/o del valore che i diversi dialettologi hanno dato a particolari tratti.
Questo problema della soggettività è stato sollevato diverse volte nella letteratura moderna.
Esperti di comparazione quantitativa (per es. McMahon e McMahon, 2005; Starostin, 2010; Szmrecsanyi e Wolk, 2011) hanno fatto notare la contraddizione implicita nella dialettologia comparativa: una disciplina che si pone di estrapolare cambiamenti sistematici e pervasivi ma fa uso di tratti linguistici selezionati a priori, e quindi non estrapolabili per definizione.
E’ chiaro che questa contraddizione nasce dal bisogno che la dialettologia comparativa tradizionale aveva nel dover scegliere un numero trattabile di caratteristiche (all’epoca non esistevano sistemi di elaborazione di big data). Allo stesso tempo però, la selezione di tratti specifici dà vita ad analisi necessariamente soggettive, con il rischio che i risultati producano classificazioni erronee dal momento che i tratti selezionati a priori diventano eccessivamente influenti nell’analisi finale. Come affermato da McMahon e McMahon (2005), questo mette in dubbio la potenziale scientificità della procedura, a meno che non venga rinforzata con l’aggiunta di una dimensione quantitativa.
Una soluzione quantitativa: la dialettometria
Ed è proprio questo problema che il mio contributo di ricerca, con la collaborazione di Lissander Brasca, cerca di risolvere. In particolare, il mio contributo è stato nell’applicare le tecniche dialettometriche alla questione del galloitalico, proprio perché la dialettometria – al contrario della dialettologia tradizionale – non seleziona tratti linguistici a priori, ma permette di estrarre configurazioni tassonomiche dai dati quantitativi.
Ne consegue che le analisi dialettometriche offrono classificazioni maggiormente oggettive e sistematiche che potrebbero essere sfuggite all’occhio della dialettologia tradizionale e dei suoi metodi qualitativi (Nerbonne e Kleiweg, 2007; Goebl e Schiltz, 1997).
Dialettometria: i dati
Il lavoro in questione include l’analisi quantitativa attraverso la misurazione della distanza di Levenshtein, un sistema di misurazione quantitativa già usato con successo nella classificazione dei dialetti dell’Irlanda (Kessler, 1995), dell’Olanda (Heeringa, 2004; Nerbonne, 2005; Nerbonne et al, 1996) e della Norvegia (Gooskens and Heeringa, 2004). Nel nostro caso, la misurazione è stata fatta tra i foni[1] dei lessemi contenuti in tre liste di significati: Swadesh 100, Swadesh 200, Leipzig–Jakarta.
I lessemi sono stati raccolti da due atlanti linguistici:
- Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (Jaberg e Jud, 1928–40);
- Atlas Linguistique de la France (Gilliéron e Edmont, 1902).
L’analisi è stata condotta sulle 24 varietà riportate nella cartina sotto con aggiunta dell’italiano standard e del francese standard, per un totale di 26 varietà e 223 lessemi distinti per ogni varietà (per un totale di 5876 misurazioni di distanza Levenshtein tratte da oltre 30mila comparazioni segmentali):
Risultati
La Rimini-La Spezia emerge inequivocabilmente dall’analisi multivariata come il fascio di isoglosse maggiore, come si vede dal fatto che le varietà a nord e quelle a sud appaiono in gruppi separati:
Il gruppo galloitalico emerge come gruppo relativamente omogeneo, con le varietà emiliane leggermente rimosse dal nucleo principale.
La classificazione del galloitalico emerge come chiaramente galloromanza, con la Rimini-La Spezia che lo separa dall’italoromanzo.
Particolarmente degno di nota è Loiano (Bo) che dista da Barberino (Fi) circa 25 km in linea d’aria e da Parigi circa 900 km, eppure il suo dialetto è genealogicamente più vicino a quello parigino che non a quello di Barberino, confermando ancora una volta come la Rimini-La Spezia sia un fascio nettamente più robusto di qualsiasi isoglossa alpina.
L’analisi dialettometrica conferma dunque la classificazione del galloitalico come ramo del galloromanzo, in linea con il lavoro di Schmid (1956), Bec (1970–1971), e Hull (1982), ma in opposizione al punto di vista che, paradossalmente, vede il galloitalico come italoromanzo nonostante lo spessore ampiamente accettato della Rimini-la Spezia.
Per saperne di più
A questo indirizzo puoi trovare il link all’articolo completo (in inglese) redatto da M. Tamburelli e L. Brasca:
https://www.bangor.ac.uk/linguistics/about/m_tamburelli.php.en
Note
[1] Le misurazioni comprendono quindi valori fonetici, ma anche morfologici, dovuto al fatto che i foni nella periferia destra della parola hanno spesso valore morfologico. Le differenze lessicali vengono poi misurate indirettamente attraverso la misurazione fonetica dei lessemi.
Bibliografia
Bartoli, M. (1936). Caratteri Fondamentali delle Lingue Neolatine. Archivio Glottologico Italiano , 28: 97-133.
Bec, P. (1970-1971). Manuel pratique de philologie romane. A. and J. Picard, Paris.
Brasca, L. (2016, 5-6 maggio). Some issues in the classification of Gallo-“Italic” within the Romance family. Oral presentation at the CLOW#2 Conference (Contested Languages in the Old World). University of Turin, Italy.
Brasca, L. (2015, maggio). Abstand & Ausbau en la clasificación de las lenguas románicas. Oral presentation at Universidade de Santiago de Compostela, Galicia.
Gilliéron J., Edmont, E. (1902). Atlas linguistique de la France. Champion.
Goebl H., Schiltz G. (1997). A dialectometrical compilation of CLAE 1 and CLAE 2: Isoglosses and dialect integration. Computer developed linguistic atlas of England (CLAE). Tübingen: Max Niemeyer Verlag 2.
Hull, G. (1982). The linguistic unity of northern Italy and Rhaetia. Ph.D. thesis, University of Sydney.
Jaberg K., Jud J. (1928-40). Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen.
McMahon, A. and R. McMahon. (2005). Language Classification by Numbers. Oxford: Oxford University Press.
Nerbonne J., Kleiweg, P. (2007). Toward a dialectological yardstick. Journal of Quantitative Linguistics, 14(2-3): 148-166.
Pei, M. A. (1949). A new methodology for Romance classification. Word, 5 (2), 135-146.
Politzer, R. L. (1947). Final-s in the Romania. Romanic Review, 38(2): 159-166.
Wartburg, W. von (1950). Die Ausgliederung der Romanischen Sprachräume. Bern: Verlag Francke.
Schmid, H. (1956). Über Randgebiete und Sprachgrenzen. Vox Romanica XV. Francke, Bern.
Starostin, G. (2010). Preliminary lexicostatistics as a basis for language classification: A new approach. Journal of Language Relationship, 3: 79-117.
Szmrecsanyi, B., & Wolk, C. (2011). Holistic corpus-based dialectology. Revista Brasileira de Linguística Aplicada, 11(2), 561-592.
Non posso che apprezzare l’uso di strumenti dialettometrici in luogo di isoglosse scelte in modo arbitrario, però alcune perplessità a mio avviso rimangono:
1) il campione lessicale: non è forse un po’ troppo esiguo per essere veramente rappresentativo (per lo meno per quanto concerne l’aspetto lessicale)?
2) le Fonti: gli Atlanti linguistici nazionali in questione testimoniano una situazione d’un secolo fa e oltre; per di più, consistendo gli stimoli per la massima parte in parole isolate, vengono in gran parte annullati i fenomeni di fonetica di frase, che pure possono aver alta incidenza nel discorso; e soprattutto la sintassi e molti aspetti della morfologia sfuggono alla statistica; infine — ma questa critica concerne soprattutto studi come quelli della dialettometria salisburghese, orientati a utilizzare tutto o gran parte del materiale degli Atlanti — è lecito dubitare sulla rappresentatività del lessico in essi documentato, in cui, sia per le caratteristiche della società dell’epoca in cui è stato raccolto il materiale, sia per l’interesse anche etnografico di quelle ricerche (ricordiamo che il titolo originale dell’AIS , come del resto indicato nella bibliografia, è “Sprach- und SACHAtlas”!) vi sono sovrarrappresentati termini della cultura agro-pastorale e artigiana, oggi non facenti più parte (e probabilmente neppure allora per la popolazione urbana) del lessico base: quasi che, ad esempio, la geosinonimica del “contenitore della cote” possa avere la stessa rilevanza dialettometrica di quella di termini come “oggi” o “buona sera”! E questo può inficiare anche la misurazione fonetica, in quanto è proprio in quel lessico oggi culturalmente divenuto desueto che è più facile incontrare i tratti caratterizzanti (non più produttivi) di questa o quell’area dialettale.
Penso quindi che finché questi problemi non saranno risolti, i risultati della dialettometria, pur altamente indicativi, debbano considerarsi come una risposta soltanto provvisoria ai porblemi di classificazione d’aree linguistiche e/o dialettali.
Un altro punto che mi lascia perplesso è la questione della linea La Spezia-Rimini.
Anzittutto la compattezza di questo fascio d’isoglosse, che sembrerebbe solo verso est aprirsi a formare il “ventaglio adriatico” Rimini-Ancona, deriva anche dalla bassa densità della rete dei punti d’inchiesta dell’AIS e dell’ALI): una rete a maglie più fitte probabilmente mostrerebbe anche qui uno scaglionarli delle isoglosse nello spazio, come lasciano pensare recenti studi su parlate di transizione emiliano-toscane.
Ma c’è soprattutto un paradosso metodologico che cercherei d’esprimere attraverso un esempio fittizio.
Si dia il caso d’una valle in cui vi siano 21 villaggi, e che sia solcata da 25 isoglosse. Una stretta gola poco transitabile separa il villaggio più a monte, chioamiamolo A, da quello immediatamente più a valle, chiamiamoli B, da dove invece non vi sono più gravi ostatoli alla comunicazione, sicché mentre A differisce per 6 isoglosse B, tra tutti gli altri, da C in poi fino al osbocco nella pianura (punto Z), la differenza è ogni volta d’una isoglossa. Ora saremmo portati a identificare un confine dialettale tra A e B, e vedere in B-Z un unico gruppo dialettale, ma ciò non quadra, perché un abitante del paese B ha più in comune (19 tratti) con A che non con un punto della media valle, diciamo M (16 tratti), o tantomeno con Z, con cui condividerà solo 6 tratti.
Ora situazioni del genere, anche se forse non così estreme come nell’esempio che ho immaginato, effettivamente esistono, per esempio il caso dei dialetti bassotedeschi orientali: il limite tra mecklenburghese e brandeburghese è effettivamente molto marcato, ma le isoglosse che, scaglionate da nord a sud, solcano il Brandeburgo (o meglio solcavano, perché i dialetti oramai là sono estinti o quasi) sono talmente numerose che, immaginando di dividere il Brandeburgo a metà, un dialetto brandeburghese “medio” della metà nord non avrebbe certo più in comune con uno “medio” della metà sud più che con un dialetto mecklenburghese parimenti “medio” . Potrebbe la linea La Spezia-Rimini presentarsi quindi come il limite Mecklenburgo-Brandeburgo? Ne ho il sospetto.
Aggiungo un’altra considerazione che mi fa sembrare problematica l’attribuzione del galloitalico, in fase moderna, al mondo galloromanzo (e – per le stesse ragioni -, anche quella allo stesso galloromanzo del catalano moderno): quando parliamo di galloromanzo — ripeto, in fase moderna — non possiamo prescindere dal fatto che in termini d’uso e di parlanti esso sia costituito oggi per la quasi totalità dal francese comune, unica lingua gallorormanza, oltretutto, che si sia espansa fuori dall’Europa e che sia alla base di creoli galloromanzi, sicché appunto il francese standard dovrà essere logicamente cosiderato quale lingua gallorormanza “tipo”, anche per quei tratti che fossero minoritari in termini di geografia dialettale. E nel mondo galloromanzo il francese standard, per la sua genesi periferica settenrionale, è tra le forme linguistiche più lontane da quelle galloitaliche.
D’altra parte la lingua “tipo” italoromanza, per ragioni simili anche se meno estreme — l’italiano non ha praticamente proiezioni extraeuropee né sta alla base, per quanto mi risulta, d’alcuna lingua creola vivente, e l’uso degli altri idiomi non è in Italia ancora così regredito come in Francia — non può che essere l’italiano standard, certo più vicino al galloitalico di quanto lo sarebbe s’esso si basasse su parlate del sud anziché sul toscano.
Riconoscere il carattere prevalentemente italoromanzo del galloitalico non significa tuttavia, a mio avviso, farne automaticamente un “dialetto italiano”, se s’accetta l’idea che la categoria di italoromanzo si situi al medesimo rango classificatorio di quelle di iberoromanzo e galloromanzo, sussumenti cioè ciascuna una pluralità di lingue. La questione cioè se il galloitalico sia una “Abstandsprache” rispetto all’italiano standard a mio modo di vedere si pone indipendentemente dalla questione della sua ipotetica galloromanità, come dovrebbe provbabilmente porsi anche per vari idiomi del Mezzogiorno, specie direi quelli della sua porzione adriatica, laddove ovviamente l’italoromanità non ne è in discussione,.
Infine, se m’è lecito, proporrei qui un mio piccolo esperimento classificatorio, con tutti i limiti del caso e quindi certo da non sopravvalutare, Utilizzando come fonte i materiali reperibili on line del sito “The Global Lexicostatistical Database” (http://starling.rinet.ru/new100/main.htm), ho provato a quantificare, sotto alcuni aspetti, la distanza tra le lingue-tetto spagnolo, francese e italiano da una parte e le lingue regionali catalano (tipo barcellonese), occitanico (provenzale), francoprovenzale (savoiardo) e galloitalico (torinese: non ho scelto un dialetto più “rustico” per non espormi all’accusa di “barare”!) dall’altra, in termini
(a) lessicali, distinguendo (cosa non sempre univocamente possibile) tra differenze complete e parziali (queste ultime quando una delle due lingue comparate presenta per i medesimo lemma swadeshiano due termini, di cui uno comune anche all’altra, o quando i termini sono diversi ma condividono visibilmente la radice), valutando le seconde con mezzo punto, e poi riportando il tutto in percentuale;
(b) fonetici, limitatamente ai termini cognati, applicando il metodo di Levenshtein e rapportandolo poi a 100 (perché il numero di lemmi confrontabili foneticamente ovviamente non è lo stesso per ciascuna coppia di lingue);
così facendo sono giunto — salvo errori ed omissioni —, al risultato che il galloitalico si situerebbe ad un grando di distanza dall’italiano simile a quello del francoprovenzale rispetto al francese, con uno scarto lessicale del 14% (all’incirca come il frpr.; lo scarto occit.-fr. risultava del 18%, quello cat.-spagn. del 29%)) e una distanza di Levenshtein (rapportata a 100 lemmi) pari a 268 (lievemente suoperiore a quella frpr.-fr., pari a 258, e a quella cat.-sp., pari a 266, ma inferiore a quella occit.-fr., pari a 299).
Naturalmente non oso trarre conclusioni troppo azzardate da questa ministatistica, basata su un corpus molto esiguo (di cui dubito qualche volta l’esattezza!) e per di più con procedimenti di calcolo così rozzi (p.es. la distanza di Levenshtein tra [a] e [ü] risulta la stessa che tra [a] e [æ], ma non ovviamente la reale differenza fonetica), tuttavia questi riosultati mi rafforza nella convinzione, precedentemente solo impressionistica, che l’ipotesi “lingua per distanza” nel caso del galloitalico non possa essere esclusa a priori.
Grazie Giovanni per le considerazioni e per il ink al tuo lavoro, che leggero’ con interesse.
Alcune delle questioni che sollevi nel tuo terzo punto sono indubbiamente valide, e sono necessariamente limiti dovuti al fatto che la ricerca procede per passi. In sotanza, una ricerca che include piu’ punti sarebbe sicuramente piu’ precisa di una che include meno punti. La questione della compattezza variabile della Rimini-La Spezia (e il punto sollevato dal tuo esempio “estremo”) rimane, e c’è bisogno di continuare le ricerche per ammassare sempre piu’ punti campione in modo sistematico e consistente, così che si arrive a livelli di classificazione sempre piu’ prcisi a livello “micro”. Come saprai, la filologia classica si e’ occupata poco dei livelli micro, concentrandosi quasi esclusivamente sulle lingue degli stati-nazione e sui rami delle famiglie piuttosto che sulle sotto famiglie. Il problem ache volevo risolvere io e’ in parte quello: le calssificazioni delle sottofamiglie sono spesso il risultato di studi un po’ a spanne o almeno non in linea con i principi della tassonomia linguistica.
Voglio pero’ far notare un possibile equivico alla base dei tuoi punti 1 e 2.
1. non è forse un po’ troppo esiguo per essere veramente rappresentativo (per lo meno per quanto concerne l’aspetto lessicale)?
Le liste di significati non sono la stessa cosa di campioni lessicali. Sono selezionate proprio perché includono solo lessemi che sono resistenti all’influenza del contatto, e quindi piu’ indicativi della genealogia. Ricordo che il nostro ‘ uno studio con propositi genealogici. Usare un campione lessicale generico (anche se piu’ grande) darebbe risultati meno precisi, proprio perché si sposta dal lessico patrimoniale, ed e’ quindi di poco valore genealogico. Questo lo spieghiamo dettagliatamente nella metodologia dell’articolo scientifico, che ti consiglio vivamente di leggere.
2. gli Atlanti linguistici nazionali in questione testimoniano una situazione d’un secolo fa e oltre; per di più
Anche questo aiuta ad una classificazione genealogica piu’ precisa, perché si hanno lessemi e foni meno contaminati dal contatto. Ancora una volta, uno studio genealogico deve per definizione evitare il piu’ possibile caratteristiche dovute al contatto.
2.b la sintassi e molti aspetti della morfologia sfuggono alla statistica
Questo e’ vero, ed ho intenzione di fare uno studio dove si guardano questi aspetti. Pero’ attenzione che il valore della sintassi e’ inferiore a quello della fonetica e della morfologia, perché le coincidenze tipologiche sono molto piu’ probabili, e quindi le similarita’ sintattiche possono distorcere i risultati invece di renderli piu’ precisi. E’ per questo che il valore genealogico della sintassi e’ ancora dibattuto, quello della fonetica no.
Riassumendo, e’ vero che usare piu’ punti campione da’ la possibilita’ di estrapolare tassonomie piu’ precise soprattutto a livello micro, e spero che ci siano piu’ studi per poter portare avanti I contenuti empirici delle classificazioni statistiche in campo Romanzo. Attenzione pero’ a non confondere studi genealogici con cartine linguistiche sincroniche (il proposito di quest’ultime, devo dire, mi sfugge, e tra l’altro creano spesso ulteriore confusion sull’argomento). La genealogia ha scopi ben precisi, e le metodologie usate devono essere in linea con tali scopi.
Grazie anzittutto per l’attenzione.
Vorrei dissipare subito un equivico: il link è quello della mia fonte, non del mio lavoretto che non si può leggere per la semplice ragione che non è mai uscito dal mio PC nonché dai miei appunti cartacei!
L’altro e più grave equivoco è da parte mia – non ho ancora letto l’articolo originale, ma ora l’ho scaricato dal sito indicato e lo leggerò quanto prima -, in quanto ho intepretato i termini “galloromanzo” e “italoromanzo” come sincronici fraintendendo quindi il Suo approccio vuol essere genetico e diacronico, col che effettivamente molte delle mi perplessità divengono infondate; non capisco però le Sue riserve sulla sincornia, perché carte (e classificazioni) sincroniche, mi paiono del tutto legittime, s’intende se eseguite seriamente.
Riguardo alla diacronia, nel caso della neolatinità poi si pone, più gravemente che per altre famiglie linguistiche, un problema che a mio modo di vedere è di non poco conto. La latinità-neolatinità, se escludiamo da un certo momento in avanti, il settore balcanico, ha costituito fino all’epoca delle grandi scoperte geografiche un continuum territoriale, al quale il modello delle “onde” s’applica probabilmente meglio rispetto a quello dell'”albero”, e in cui per di più le correnti linguistiche hanno cambiato così spesso direzioni e percorsi, e le barriere alla comunicazione da parte loro si sono così spesso annullate o create ex novo, che forse più che d’una “genealogia” potremmo parlare d’una neolatinità che, immaginando una successione d’ipotettiche “istantanee”, mostrerebbe continue processi di frammentazione e riaggregazione ogni volta differenti. Esemplifico: è noto che alcuni dialetti lucani presentano un vocalismo di base asimmetrico di tipo “romeno”, il che suggerisce che ci sia stato un momento in cui sono stati raggiunti da correnti linguistiche orientali, ma per il resto sono stati coinvolti in tutti gli sviluppi dell’italoromenzo meridionale, sicché troverei difficile attribuirli al balcanoromanzo sopravvalutando arbitrariamente un momento solo della loro storia. O pensiamo ancora all’alterno destino di Roma, da centro propulsore della latinità a periferia nord della napoletanità e poi perifieria sud della toscanità.
Pertanto, pur rimanendo ovviamente legittimo cercare di ricostruire configurazioni precedenti, ai fini della comprensione della struttura geolinguistica della neolatinità troverei preferibile considerare il risultato di tutti i fenomeni e tutte le correnti – dall’antichità ad oggi – che hanno portato alla situazione moderna.
G.P:
Grazie per i chiarimenti, mi sono accorto un po’ in ritardo che il link rimandava a un database.
Le domande che sollevi sono molto pertinenti, ma avrebbero bisogno di una serie di saggi! Non riusciro’ certo a dare risposte esaustive in un post (sto sviluppando proprio adesso un corso trimestrale su alcuni di questi concetti). Provero’ pero’ a chiarire un paio di cose principali.
“ho intepretato i termini “galloromanzo” e “italoromanzo” come sincronici”
Qui non capisco cosa intendi. I concetti di galloromanzo e italoromanzo sono genealogici e quindi per definizione diacronici (escludendo ovviamente casi dove si fanno i pasticci di cui parlo nell’articolo qui sopra).
“carte (e classificazioni) sincroniche, mi paiono del tutto legittime, s’intende se eseguite seriamente”
Il punto alla base del mio commento e’ che una carta che descrive tratti sincronici non ha, di per sé, alcun valore classificatorio, ed è quindi quasi sempre fuorviante. Ed infatti tali carte non esistono nella letteratura specialistica (eccetto per alcuni casi di sociolinguistica, ma qui mi dilungherei troppo). Faccio un esempio “estremo” per spiegarmi meglio. Mettiamo che si faccia una cartina che riporta le zone dove esiste il suono [y]. Tale cartina mettera’ assieme Milano e Parigi con Berlino e Stoccolma. Indipendentemente dalla sua precisione, tale cartina non classifica alcunché.
La classificazione e’ altra cosa, ovvero l’ordinare gruppi dialettali e/o lingue a seconda dei loro livelli di parentela. Questo puo’ solo avvenire se si seguono criteri precisi in linea con la genealogia (i criteri di cui parlavo sopra e che sono descritti nell’articolo scientifico completo).
Cio’ non significa che le carte sincroniche siano inutili, possono essere utili a chi interessa un certo fenomeno – se voglio studiare la [y] e’ ovvio che una carta che mi dice dove esiste la [y] e’ utile – ma non rappresenta una classificazione, semplicemente descrive la presenza o assenza di uno o piu’ fenomeni.
“il modello delle onde”
Nella linguistica moderna il modello delle onde non e’ in opposizione a quello dell’albero, semplicemente rappresenta una dimensione diversa. Per fare un’analogia, sono come lo studio delle famiglie in biologia e lo studio degli habitat: l’uno non esclude l’altro, anzi, i due sono complementari. Dire che la balena condivide l’habitat con i crostacei non ci dice nulla sulla sua posizione nell’albero genealogico. Ed e’ per questo che, i dialetti lucani rimangono italoromanzi nonostante la (presunta) influenza delle correnti linguistiche orientali, così come l’inglese rimane germanico nonostante i normanni.
Sono consapevole che si tratta di questioni che certo non si possono sciogliere in poche righe!
Cerco di chiarire meglio il mio punto di vista.
1) su galloromanzo e italoromanzo come categorie sincroniche.
La prenderò un po’ alla lontana: quando parliamo di lingue “romanze” usiamo una categoria che è certamente genetica e quindi diacronica — intendendo gl’idiomi sviluppatisi a partire dal latino parlato di Roma (e periodicamente rilatinizzati, se così possiamo dire, dalle voci culte attinte a varie epoche dal latino o trasversalmente passate da una lingua romanza all’altra) — epperò “neolatino” è a mio avviso una categoria valida anche dal punto di vista sincronico — nel senso che le lingue romanze condividono tuttora (salvo in parte i creoli, che però non costituiscono che una piccola parte della neolatinità) un così elevato tratto di elementi morfologici e sintattici e d’unità lessicali (nel lessico fondamentale) da risultare chiaramente distinguibili dalle lingue germaniche, slave, iraniche etc.
Esemplifico: se ci troviamo di fronte ad una lingua in cui siano presenti tutti, o quasi tutti, tratti come un articolo determinativo declinabile che contenga (in almeno parte delle sue forme) un elemento /l/, un articolo indeterminativo, parimenti variabile (per genere), che contenga /n/, tempi composti formati (almeno per una parte dei verbi) da un verbo il cui significato base sia “avere” (e, che per lo più, che presenti in almeno parte delle sue forme la radice /av/ o /ab/) e il participio passato, e ancora in cui esistano un futuro e un condizionale caratterizzati da un suffisso contenente /r/, in cui la specificazione sia espressa mediante una preposizione contenente /d/, l’oggetto indiretto mediante /a/ o un pronome clitico ecc. ecc., possiamo senz’altro concludere che abbiamo a che fare con una lingua romanza. Ora, quelli che ho menzionato sono tratti sincronici, nel senso che sono direttamente osservabili nelle lingue romanze viventi. Ugualmente potremmo stabilire una serie di tratti sincronici applicabili alle lingue slave o (qui effettivamente con un po’ più di difficoltà) alle lingue germaniche.
Ma poiché è anche (sincronicamente) evidente che gl’idiomi neolatini non son tutti equidistanti fra loro, dev’essere lecito anche tentare una classificazione della neolatinità al suo interno, sempre in base a tratti sincronici. Ora, mi sembra difficile negare che raggruppamenti quali spagnolo+portoghese (prescindo qui dalla controversa posizione del catalano), francese+francoprovenzale+occitanico, romeno+arumano+meglenita siano tenuti assieme da isoglosse d’ogni tipo più importanti o numerose di quelle che unirebbero ciascuna di queste lingue d’un gruppo (basandosi sullo standard, se esiste, o su un dialetto rappresentativo, non su un dialetto periferico) con una qualsiasi d’un altro gruppo.
E forse soprattutto in tal senso sincronico (in cui lo stato di cose moderno è certo anche frutto degl’influssi unificatori della lingua comune) credo che sia legittimo parlare d’italoromanzo, più che in senso diacronico, visto che pare difficile cogliere una specifica tardolatinità o protoromanità specificamente “italiana” (il “volgare italico” altomedievale non c’entra a mio avviso con questo discorso, giacché sarebbe stato una variante culta di minimo spessore sociale).
Forse quanto intendo dire sarà ancora più chiaro riferendosi al mondo germanico: se da un punto di vista genetico si parla classicamente di nordico :: germanico del mare del nord (ingevone) :: germanico del Reno e Weser (istevone) :: germanico dell’Elba (erminone) :: germanico orientale, dal punto di vista sincronico la germanicità s’articola ben diversamente, essendosi per esempio l’ingevone presto dissoltosi, venendo a formare lingue tra loro ben differenti, dal bassotedesco all’inglese (e ai creoli a base inglese), mentre istevone e erminone si sono presto per così dire “confederati” nell’antico altotedesco per evolvere nei vari idiomi tedeschi moderni (standard, dialetti centromeridionali, yidish); e da parte sua il nordico s’è sempre più venuto differenziando – indipendentemente dall’antica differenziazione in occidentale e orientale – in un blocco svedese-danese-norvegese, progressivamente avvicinatosi alle lingue continentali, e in uno insulare (islandese, e färöico) sempre più autonomo dal rimanente mondo germanico.
2) sulle carte sincroniche.
Se anziché tracciare su carta una singola isoglossa, si disegnano carte che visualizzino il risultato d’una classificazione basata su un insieme significativo di fatti sincronici, abbiamo appunto una carta linguistica sincronica. Esempi di carte di siffatto tipo sono le “Clusterkarten” dello svizzerotedesco, visibili sul sito htpp://dialektkarten.ch, che, essendo basate su dati relativamente recenti e senza sovrarrappresentazione del lessico rispetto alla morfosintassi, penso che rendano un’accettabile immagine della stuttura moderna dello spazio linguistico della Svizzera germanofona.
Si tratta certo d’un livello “micro”, ma, se fossero disponibili basi di dati attendibili a livello “macro”,
sarebbero possibili analoghe carte sincroniche d’intere famiglie linguistiche.
3) “Alberi” e “onde”.
Non voglio dire che l’un modello escluda l’altro, bensì che per certi luoghi e tempi può essere più descrittivamente e anche esplicativamente utile un modello, per altri l’altro. Se ci troviamo, p.es., di fronte ad una famiglia linguistica che s’è andata presto anche territorialmente separando (p.es. per migrazione e colonizzazione di terre lontane) con pochi contatti successivi alle separazioni, il modello dell’albero sarà imprescindibile; invece laddove ci si riferisca ad un’area in cui i contatti e le correnti sono stati sempre intensi, e non sono mai esistite barriere di comunicazione insormontabili, e i centri d’irradiazione si sono alternati nel tempo, troverei preferibile il modello delle onde. Probabilmente la Romània rientra più nel secondo tipo che nel primo.
Mi si permetta un commento alla sua affermazione che “l’inglese rimane germanico nonostante i normanni”: a mio avviso rimane germanico non solo perché geneticamente tale, ma anche perché, ad onta degli sviluppi propri e dei molti francesismi (la cui incidenza però è significativamente più bassa nel lessico a maggior frequenza e specialmente nei monemi funzionali), continua a condividere molti tratti con le rimanenti lingue germaniche (o la maggior parte di esse): aggettivo anteposto (e in generale struttura determinante – determinato), articoli e dimostrativi con base in consonante dentale, espressione del possesso con un elemento suffisso /s/, espressione del tempo passato mediante un suffisso dentale o apofonia, esistenza (seppur limitata al sottosistema pronominale) d’un genere neutro, obbligo di soggetto esplicito, formazione dei numerali 11 e 12 diversa da 13-19, e così via.
Mi lascia stupito che nell’articolo e nei successivi commenti si parli del gallo-italico come di una realtà esistente, effettiva, e non di un artificio, per quanto ben motivato, accademico, cioè frutto di analisi e comparazioni. Nei fatti, non è mai esistita una koiné gallo-italica (forse è esistita una koiné lombardo-padana, ancorché fortemente innervata di costrutti italiani, ma di dimensioni molto inferiori all’area del gallo-italico), e ancor oggi, nonostante il fortissimo appiattimento provocato dalla diffusione della lingua nazionale, il livello di intercomprensione tra le varie lingue storiche che occupano lo spazio geografico del gallo-italico è piuttosto basso.
Tralascio di commentare l’excursus su Loiano : credo che i loianesi, dalla latinità, non abbiano mai smesso di comunicare e di capirsi perfettamente con i fiorentini, mentre immagino che una qualche possibilità di intercomprensione con i parigini l’abbiano avuta nella tarda latinità, al disfarsi dell’Impero romano, per poi precipitare in lingue diverse e prive di intercomprensibilità.
Infine la mitica linea gotica: sul versante adriatico si pone ben più a sud di Rimini, a Fano direi, mentre Senigallia, a dispetto del nome, dovrebbe essere la prima località del litorale a far uso di una varietà dell’italiano centrale.
A me non pare che nell’articolo si parli di galloitalico come di una koinè, ma piuttosto come il gruppo delle lingue dell’Italia settentrionale composto da piemontese, lombardo, emiliano
Non so se si sono fatte ricerche sulla comprensibilità reciproca tra le varie lingue galloitaliche: io posso testimoniare per esperienza personale che l’intelleggibilità tra lombardo (perlomeno occidentale) e piemontese (non necessariamente di Torino) è molto alta.
Su Loiano: ancora una volta, non si parla di comprensibilità, quanto di genealogia linguistica.
Per quello che riguarda la ‘linea gotica’, il problema del “gallo-marchigiano” è che è privo di alcune delle caratteristiche più tipiche delle lingue del nord Italia, come il passaggio di C, P, T latine a G, V, D. Per molti versi, sembra un italiano centrale “romagnolizzato” in età recente.
Come ha fatto notare Pietro, l’articolo parla di genealogia, un concetto ben distinto dalla intercomprensibilita’ sincronica (anche se i due sono legati indirettamente). Per fare un’analogia, il fatto che rumeno e spagnolo siano poco intercomprensibili non rende meno “reale” il concetto di lingue romanze. Devo poi dire che non sono assolutamente d’accordo sulla presunta distinzione fra realta’” e questo “artificio accademico” di cui parla, che non ha alcun senso nella scienza (molto e’ stato scritto a riguardo tra gli anni ’50 e ’70). Nella scienza le teorie o sono corrette (e quindi per definizione corrsipondono alla “realta’”) o vengono falsificate (o, peggio ancora, sono “infalsificabili”), e quindi dimostrabilmente non corrispondenti a “realta’”. I dati analizzati dal nostro articolo dimostrano che la teoria che sostiene l’appartenenza del gruppo Gallo-Italico ad un “sistema italiano” e’ molto probabilmente errata.
Il gallico-marchigiano è in realtà un gruppo di dialetti molto variegato, in cui ci si possono suddividere, secondo Balducci, almeno 4 subvarietà:
– marecchiese (Novafeltria e alta valle del Marecchia, oggi parte della provincia di Rimini);
– pesarese (Pesaro, Gradara, Tavullia e bassa valle del Foglia);
– fanese/urbinate (comprende tutta la valle del Metauro e l’alta valle del Foglia, nonché l’area di Macerata Feltria e Carpegna);
– senigalliese
Il primo gruppo (marecchiese) è sostanzialmente riconducibile ai dialetti più conservativi della Romagna sud-orientale (definendo con questo termine quella parte di Romagna a sud del corso del Rubicone), in quanto si ritrovano varie caratteristiche tipiche dell’area riminese, come i pronomi clitici soggetto per tutte le persone (anche con verbi impersonali), l’epitesi di -i per la risoluzione di gruppi consonantici complessi (ad es. fórni = forno, invérni = inverno), la quantità vocalica distintiva, i plurali maschili metafonetici e i plurali femminili in -i; tuttavia, a differenza dei dialetti più a valle, queste varietà hanno tratti più conservativi, per cui molte parole mantengono la consonante sorda intervocalica (tranne la “s” che diventa sempre sonora tranne nelle parole composte); a Novafeltria si dice fók, urtìca, chèpra, sapé, rèpa, ròta (=fuoco, capra, sapere, rapa, ruota), mentre più a valle (ad es. a Rimini) si dice fóg, urtìga, chèvra*, savé, rèva, ròda (*chèpra e caprètt si sentono dire in realtà anche in area riminese); il fatto che questi dialetti non abbiano la sonorizzazione sistematica di queste consonanti è a mio parere un fatto conservativo non necessariamente dovuto alla vicinanza di dialetti di area marchigiana (come l’urbinate) in cui non c’è lenizione delle sorde, poiché lo stesso fatto si verifica anche in zone che non hanno mai fatto parte della provincia di Pesaro, come l’alta Valle del Savio (in provincia di Forlì-Cesena); si potrebbe allora supporre che tutti i dialetti della Romagna sud-orientale fossero un tempo a metà strada tra sonorizzazione e conservazione delle sorde, dove la lenizione rappresentava un elemento innovativo giunto dalla Romagna nord-occidentale tramite la Via Emilia e forse, tramite la costa, dal Veneto; a Rimini e Riccione la sonorizzazione è poi diventata sistematica (con qualche eccezione), mentre a Novafeltria c’è solo in qualche parola (ad es. bùga = buca, códga o cótga = cotica).
In area pesarese si ritrovano ancora i pronomi clitici soggetto obbligatori per tutte le persone (mè a so = io sono, tè t’zì = tu sei ecc.), che però non vengono espressi in presenza di verbi impersonali o meteorologici (ad es. * piòv = piove, * è cald ecc.), oppure quando entrano in contrasto con altre particelle clitiche (ad es. “la Maria èl sa fè” = (la) Maria lo sa fare).
Il dialetto pesarese ha anche la sonorizzazione quasi sistematica di k>g (urtìga, furmìga, amìg ecc.), molto frequente anche quella t>d (ròda, fritèda, fradèl = ruota, frittata, fratello; ma ci sono anche parole come vitèl =vitello, vétre =vetro); possibile anche la lenizione di p>v in parole come lévre = lepre, pévre e pevrón = pepe e peperone (ma c’è anche chi dice “pép”), savé = sapere; però ci sono anche altre parole come rèpa (=rapa), capéi (=capelli), chèpra, aprìl che non presentano sonorizzazione, per cui si può dire che qui la lenizione è ben presente ma non sistematica (naturalmente “s” intervocalica è anche qui sempre sonora).
Il pesarese condivide con i dialetti romagnoli sud-orientali anche altre caratteristiche fonetiche di tipo gallico, come la caduta delle consonanti doppie in molte posizioni (dopo vocale breve possono avere una pronuncia un po’ allungata senza però essere delle consonanti geminate), la presenza di dittonghi o di vocali nasali in parole come “faréina” o “faréna” =farina, “nisciòun” =nessuno ecc., la pronuncia chiusa delle vocali in sillaba libera (ad es. cél =cielo, gél= gelo, “chijsa” =chiesa) e la presenza di metafonia negli aggettivi con apertura della vocale in sillaba breve, specie nelle varianti del contado pesarese (tónd =tondo, ma “tònda”, sécc =secco, ma “sècca” ecc.); un’altra caratteristica è la risoluzione dei nessi consonantici complessi con epitesi di -e come nel riminese urbano (fórne, mèrle, invèrne = forno, merlo, inverno).
Le caratteristiche che accomunano invece il pesarese al gruppo fanese-urbinate sono la possibilità di posporre l’aggettivo possessivo dopo il nome con forme invariabili (ad es. l’amig mia = l’amico mio, la mèchina tua = la macchina tua, “l’à el tèmp mia” = ha la mia età ecc.), ma davanti ai nomi di parentela viene quasi sempre preposto (mi pèdre = mio padre, mi fradèl = mio fratello ecc.); la possibilità di avere “mica” preverbale, mentre in romagnolo è in genere sempre dopo il verbo (quando preverbale si usa di solito “minga/ménga”: “mìnga t’zì maché!” = non sei mica qui!, ma si può anche dire “an t’zì miga maché!”), la presenza di parole ed espressioni di origine centro italica come gì = andare (molto usata l’espressione “bèda gì!” =lascia andare!).
Bisogna comunque sottolineare che molte parole di origine centro-italica sono d’uso comune anche a Rimini, come “pizardòun” =pizzardone, vigile, “paranènza” =grembiule da cucina, “zinalòun” =grembiule da lavoro, “piscòlla” =pozzanghera ecc.
Una caratteristica che unisce buona parte della Romagna sud-orientale (in particolare Riccione, Cattolica e la valle del Conca) con l’area gallico-marchigiana è l’inversione di “-ng” in “-gn”, in parole come strègn =stringere, piègn/piègna o piàgna = piangere, ògna = ungere/unghia ecc.; a Rimini, invece, forse per influsso settentrionale, abbiamo: strènz, piànz, ònz (ungere), òngia (unghia), a Novafeltria strèngia, pièngia, óngia e ónghia.
L’accusativo preposizionale è inoltre attestato ovunque in area riminese (come a Pesaro), ad es. in espressioni come “A v salùt ma tótt” (=vi saluto tutti), “A l cnòss ènca ma ló” (=conosco anche lui), “E’ guardèva mal galèini” (=”egli guardava le galline”, come trovato in un testo); questo è ritenuto da quasi tutti gli studiosi un tratto italo-mediano, ma si ritrova anche in spagnolo (lingua romanza occidentale).
A Urbino troviamo i nomi di parentela espressi senza l’articolo, mentre in Romagna e a Pesaro si dice “il babbo, la mamma, il nonno” ecc.; a Cagli (Appennino umbro-marchigiano) si usano gli enclitici di parentela posposti come al sud e nelle Marche centrali (“babb’te =tuo babbo, “màmm’ta =tua mamma ecc.), mentre a Pesaro si dice “tu pèdre”, “tu mèdra” ecc. e in Romagna abbiamo “e’ tu ba’”, “la tu ma’” ecc.
Insomma, è evidente che a partire dalla Romagna meridionale (e quindi già a Rimini) si entra in un area di transizione con l’Italia centrale, tuttavia va precisato che ci sono aree dove prevalgono gli elementi gallo-italici (ad es. a Novafeltria e Pesaro) e altre aree, come quella urbinate, dove la parlata risente maggiormente della vicinanza dell’Italia mediana; si potrebbe quindi delineare un confine fra le aree in questione prendendo come discrimine la presenza o l’assenza dei pronomi clitici soggetto, a cui generalmente corrisponde anche il confine dello scempiamento delle consonanti doppie e la lenizione delle sorde; seguendo questa linea, le subaree marecchiese e pesarese sonoindubbiamente gallo-italiche, mentre l’area fanese/urbinate fa già parte dell’Italia centrale o perimediana.
Questo mi sembra il confine più logico, in quanto a Urbino troviamo tante caratteristiche sul piano fonetico e sintattico ascrivibili all’Italia centrale, come la conservazione di tante consonanti doppie e sorde, anche di più che in italiano, ad es. in parole come “robba, urlogg’, dménnica” (=roba, orologio, domenica), mentre a Pesaro si dice “ròba, arlòg’, dméniga” e a Rimini “ròba, arlòz’, dmènga”.
Inoltre a Urbino (e a Fano) non ci sono pronomi clitici soggetto e si trovano diversi plurali maschili in -i (mentre a Pesaro li troviamo solo sporadicamente).
Senigallia chiaramente è centro-italica, con influssi gallici ma anche anconetani; per quanto riguarda quest’ultimo influsso, la pronuncia aperta di tante parole in sillaba libera come “bène, sèdia, complèto” ne è la dimostrazione più lampante.
Questi sono alcuni video in dialetto pesarese di Carlo Pagnini:
https://www.youtube.com/watch?v=xSzt5aaemL0
https://www.youtube.com/watch?v=T9a8GPgvQa8
Questo invece è un video in dialetto fanese di Andrea Lodovichetti:
https://www.youtube.com/watch?v=Err1jkpbA34
A me pare che proprio fra queste due località (Pesaro e Fano) si possa porre il confine linguistico tra Italia settentrionale e centrale; se si scende ancora un po’, a sud del Metauro possiamo trovare un dialetto come questo: https://www.youtube.com/watch?v=kKCjDDbWSHE
Per me quest’ultimo va classificato come dialetto perimediano con influssi gallici, voi cosa ne pensate?