I fatti recenti della Catalogna hanno avuto un grande clamore anche in Italia: infatti nel nostro Paese, come in Spagna, ci sono tendenze indipendentiste e una grande varietà linguistica interna.
Molte persone preoccupate ci hanno chiesto: se le lingue regionali venissero tutelate come è tutelato il catalano, rischieremmo una deriva catalana di una o più regioni del nostro Paese?
Noi della Redazione del blog CSPL ci siamo ritrovati nella nostra chat segreta e abbiamo discusso a lungo sul tema. Il risultato delle nostre riflessioni è questa lista di 9 atteggiamenti per evitare una situazione catalana in Italia.
1. L’indipendentismo esiste e bisogna prenderne atto
In questi giorni i Catalani sono scesi in piazza per l’indipendenza della propria regione. Sono migliaia, anzi milioni. Visti questi numeri, potresti pensare che il movimento indipendentista catalano sia fortissimo da sempre.
Eppure, nel 2006 i catalani su posizioni indipendentiste venivano stimati al 10-15% sul totale della popolazione. Oggi superano ampiamente il 40% (qualcuno dice addirittura il 50%).
Cosa ha fatto cambiare idea a così tanti cittadini catalani in soli 11 anni?
Uno degli errori che viene imputato al governo spagnolo nel corso della crisi catalana è proprio quello di aver negato qualsiasi dignità politica alla causa autonomista (prima) e indipendentista (dopo) e di aver rifiutato ogni compromesso e trattativa.
In Italia sta accadendo lo stesso. Il tema dell’indipendentismo è una realtà sotto gli occhi di tutti. E’ inutile che nascondiamo la testa sotto la sabbia: esso è un tema politico attuale e che interroga nel profondo l’identità italiana, la funzione dello Stato nazionale, il ruolo dell’Europa.
Non è un caso che, nei giorni cruciali della crisi catalana (così come ai tempi del referendum scozzese del 2014), molti osservatori abbiano paventato il rischio di un “effetto domino” che potrebbe investire tutta l’Europa, Italia compresa.
Qualcuno dice che la discussione sull’indipendentismo non ha senso: in Italia oggi non c’è nulla di paragonabile al movimento indipendentista catalano. Vero, ma le prime avvisaglie di indipendenza ci sono tutte.
Se la Catalogna è così cambiata in 11 anni chi ci garantisce che nel 2028 a votare per l’indipendenza non sarà la Sardegna, la Lombardia o il Veneto?
Non si può prevedere cosa accadrà, ma almeno si può evitare di fare lo stesso errore strategico della Spagna.
Dunque, evitare di considerare l’indipendentismo come una burletta, ma riconoscerlo come un pensiero politico con la propria dignità, potrà aiutarci a prendere sul serio le sfide che pone, e forse disinnescarlo.
Allo stesso modo, è necessario fare chiarezza tra i termini “autonomia”, “federalismo”, “indipendenza”, che spesso nel dibattito pubblico italiano sono stati confusi gli uni con gli altri, anche per via di una comunicazione politica un po’ facilona.
Non è certo questa la sede per proporre riforme politiche all’ordinamento dello Stato (il CSPL non ha questa vocazione). Ma vale la pena di riflettere seriamente su questo tema.
2. Italiano e “dialetti” non sono in guerra tra loro
Se si guarda alla comunicazione dei due schieramenti in Catalogna, si nota una netta divisione linguistica: la propaganda degli unionisti è quasi tutta in spagnolo, quella degli indipendentisti pressoché tutta in catalano.
D’altro canto, sono note le accuse di molti cittadini catalani di madrelingua spagnola che da anni accusano il governo regionale di Barcellona di portare avanti una discriminazione linguistica contro chi parla spagnolo, nella scuola e nella vita pubblica.
E’ innegabile che in molti casi l’indipendentismo faccia uso della lingua locale come strumento identitario contro lo Stato centrale. È accaduto anche in altre regioni “calde” d’Europa, come la Corsica e i Paesi Baschi.
Usare una lingua diversa da quella dello Stato “dominatore” è un modo per sentirsi diversi dal resto dello Stato e manifestare il proprio diritto di essere considerati una nazione diversa.
Ma c’è una fallacia di fondo in questo pensiero. E’ l’idea che parlare una lingua distinta da quella ufficiale dello Stato significhi avere un’identità nazionale diversa, e di conseguenza avere automaticamente diritto ad uno Stato proprio.
E’ quell’atteggiamento che ci divertiamo a definire “pacchetto unico nazionale”. Hai presente quando vai al supermarket e trovi i prodotti con la dicitura “non vendibile singolarmente”? Ecco, è la stessa cosa, ma applicata alle nazioni. Ogni nazione, per essere “completa”, ha bisogno di una lingua propria e di uno Stato indipendente.
Questo pensiero porta tutta una serie di considerazioni:
- Se c’è una lingua, significa che c’è una nazione, e quindi dovrebbe esserci uno Stato.
- Se c’è uno Stato, c’è una lingua e una nazione.
- Se c’è uno Stato ma si parlano altre lingue, significa che c’è qualcosa che non va.
Considera inoltre che nel concetto di “nazione” ci può finire di tutto, dalla religione ad avvenimenti storici comuni, per passare alla fisionomia e alla genetica.
Magari tu adesso stai ridendo perché l’abbiamo raccontata in un modo un po’ grottesco, ma è esattamente così che ragioniamo noi Europei. Oggi, 2017. In modo particolare in Italia.
Ti ricordi la definizione di nazione italiana che Alessandro Manzoni ci dà nel Marzo 1821?
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
Ecco, Manzoni ha descritto bene il “pacchetto unico nazionale” che ha contribuito alla creazione dello Stato italiano e che possiamo definire, in un certo senso, il nostro “peccato originale”.
Per fortuna le cose sono cambiate. Oggi definire la nazione “di sangue” ci suona oltremodo razzista. Abbiamo anche superato l’idea della nazione “d’altare”. Ci sono italiani cattolici come italiani protestanti, italiani buddisti, italiani musulmani, italiani atei…
E per quanto riguarda l’Italia “di lingua”?
Di strada bisogna farne tanta. Ancora oggi la nostra cultura accademica, e di riflesso anche l’opinione pubblica, è legatissima all’idea di Italia come “terra in cui si parla l’italiano”.
E’ chiaro che in questa prospettiva non puoi ammettere serenamente che in Italia sono parlate altre lingue oltre l’italiano, e che le parlano gli italiani stessi. Negheresti l’idea stessa di nazione italiana.
Eppure queste lingue esistono, ed è evidente a tutti. Ma a questo punto arriva il colpo di genio: basta chiamarli “dialetti”.
In questo modo non solo viene negata la loro essenza di lingue vere e proprie, ma sono inseriti in una relazione di contrapposizione con l’italiano.
E così, da una parte abbiamo l’italiano, che è la lingua, è formale, è nazionale, è standard, è uguale per tutti, è la lingua del presente e del futuro, è la lingua della letteratura. L’italiano è bene.
Dall’altra abbiamo il dialetto, di qualsiasi regione sia, che è esattamente l’opposto dell’italiano: informale, locale, cambia da paese a paese, non ha uno standard, è la lingua del passato, è solo orale. Il dialetto è male.
È uno schema molto semplice, ed è quindi rassicurante. Hai l’impressione che i “dialetti” siano tenuti al guinzaglio dalla lingua italiana, e che dunque siano inoffensivi.
Invece questa situazione offre un fianco scoperto ai movimenti secessionisti.
Infatti, nello schema di contrapposizione lingua/dialetto, chi vuole tutelare il patrimonio linguistico regionale non riesce ad inserirsi in modo sereno. Se l’italiano è l’opposto dei “dialetti”, chi sta dalla parte dei “dialetti” non può che osteggiare l’italiano.
Ma se uno osteggia l’italiano, osteggia anche tutto ciò che fa parte del “pacchetto unico nazionale”.
Ed ecco che è nato un secessionista.
Noi del CSPL ci stiamo impegnando per superare questa sciagurata e falsa dicotomia tra lingua e dialetto. Vogliamo aiutare gli italiani a mettere in un cassetto l’idea di “nazione di lingua”, accompagnandoli verso un sano bilinguismo tra lingua nazionale e lingua regionale. Siamo certi che un giorno le lingue locali non faranno più paura e giudicheremo l’idea di “nazione di lingua” con la stessa perplessità con cui oggi giudichiamo l’idea di “nazione di sangue”.
3. Togliere il monopolio delle lingue ai movimenti secessionisti
Come abbiamo detto, l’atteggiamento maggioritario attuale nei confronti delle lingue d’Italia è una vera e propria fabbrica di secessionisti.
Se lo Stato italiano riuscisse a scardinare questo sistema facendo propria la battaglia per la tutela delle lingue minoritarie, potrebbe togliere un fortissimo appiglio identitario alla causa indipendentista.
Oggi come oggi, togliere la lingua regionale dalle mani dei secessionisti non è mai stato così facile.
La stragrande maggioranza dei secessionisti non è focalizzata sulla linguistica. Infatti nei propri gruppi di discussione si esprime quasi solo in italiano. Segno che la lingua è solo un simbolo identitario, uno stemma da sfoggiare come una bandiera o un costume da parata, ma non sempre c’è un reale interesse nel tenerla viva.
Inoltre, molti appassionati di lingua locale che sono stati spinti verso posizioni indipendentiste perderebbero l’interesse nella causa secessionista perché lo Stato italiano è attento a quello che sta loro a cuore.
Una tutela estesa e moderna delle lingue regionali da parte dello Stato, lungi dall’essere un “contentino” per tenere buone le teste calde, eliminerebbe la differenza politica tra indipendentisti e unionisti nel campo linguistico.
Il dibattito indipendentista non verterebbe sulla scelta “salvare la lingua regionale o difendere la lingua italiana”, ma si parlerebbe solo ed esclusivamente della costruzione di un ipotetico nuovo Stato.
Inoltre, faremmo un notevole passo avanti come sviluppo civile. Le lingue regionali appartengono a tutto il popolo e la loro tutela dovrebbe essere affare di tutti, non solo di chi vuole separarsi dallo Stato italiano.
Per fortuna abbiamo fatto qualche passo in questo senso con la celebre legge 482/1999, che però risulta incompleta e poco incisiva.
4. No al razzismo contro le lingue minoritarie (e chi le parla)
In Italia il dibattito politico e social è avvelenato e tende a negare qualsiasi dignità all’avversario. Il tema dell’odio in rete è all’ordine del giorno, e sembra investire qualsiasi argomento di attualità.
Odio contro gli immigrati, odio contro la politica, odio contro i vaccini, odio contro l’Europa…
E odio contro le lingue locali.
Solo che nei primi casi c’è una generale levata di scudi. Nel caso delle lingue regionali, invece, sembra che vada tutto bene, e che anzi insultare il “dialetto” e chi lo parla sia satira leggera e divertente.
Evidentemente c’è la presunzione che certi gruppi sociali non possano essere vittime di razzismo. Eppure lo sono, eccome. Basta aprire qualsiasi pagina Facebook sulle news che parlano di autonomia o di iniziative legate alla tutela linguistica per trovare commenti atroci e pieni d’odio contro i “dialetti” e chi li parla.
Cose che, se fossero scritte contro i gay o le persone di colore, avrebbero portato come minimo ad un’interrogazione parlamentare!
Eppure il razzismo linguistico in Italia è all’ordine del giorno.
Se iniziassimo a prendere certe battute per ciò che sono, ossia come offese, il nostro Paese sarebbe senza dubbio migliore. Il dibattito pubblico sul tema sarebbe più sereno e, ancora una volta, l’indipendentismo troverebbe meno appigli.
5. La diversità linguistica è un patrimonio nazionale
Una cosa importante di cui bisogna rendersi conto è che, indipendentismo o meno, la diversità linguistica e la sua tutela dovrebbero essere delle priorità nella politica culturale italiana.
Il patrimonio culturale non è fatto solo di beni materiali (monumenti, opere d’arte e riserve naturali…), ma anche di beni immateriali: tra questi ci sono anche le lingue.
L’UNESCO (quella che riconosce in Italia il 50% dei siti dichiarati “patrimonio dell’umanità”) insiste molto sulla salvaguardia delle lingue minoritarie, e non è un caso che censisca quelle in pericolo in un suo speciale Atlante.
Questo patrimonio è una ricchezza culturale, ma anche economica. Pensa anche solo a come potrebbe giovarne il settore turistico.
Insomma, le lingue locali non sono un feticcio degli indipendentisti, ma un patrimonio comune a tutti gli italiani, al di là del loro pensiero politico e della loro visione dell’Italia.
Sia l’italiano (inteso come toscano) che tutte le altre lingue d’Italia sono nati ben prima che nascessero il movimento unitario e quelli regionalisti, e fino in epoca recente hanno convissuto tranquillamente.
Ricordiamoci che quando due schieramenti politici battagliano sull’uso di una lingua, l’unica vera vittima è la lingua stessa: nel Nord Italia questa cosa si è vista spesso nella lunga e triste “guerra dei cartelli“, che vengono esposti dalle giunte di centrodestra e rimossi da quelle di centrosinistra.
Allo stesso tempo, dovremmo smettere di contrapporre minoranze con altre minoranze, selezionando alcune lingue rinnegandone altre come purtroppo è stato fatto con la legge 482/99.
Come diceva uno dei più grandi linguisti italiani, Giovan Battista Pellegrini,
L’Italia è una maggioranza di minoranze.
Sarebbe ora di prenderne atto.
6. Smettere di pensare che noi Italiani siamo diversi dagli altri
Spesso, quando si parla di tutela linguistica, viene mossa questo obiezione: eh, ma in Italia è diverso!
E quindi vengono enumerate tutta una serie di considerazioni.
- L’Italia è unita da relativamente poco tempo, quindi c’è bisogno di dare il massimo risalto all’italiano per unire gli Italiani.
- Siamo partiti da una situazione di forte frammentazione per arrivare all’unità nazionale. Quindi il nostro destino è quello di abbandonare i dialetti e parlare solo in italiano.
- L’italiano è nato senza imposizioni, dunque è naturale che soppianti i dialetti.
- La nostra tradizione, sin dai tempi di Dante, è quella che vede contrapposta una lingua nazionale e dei dialetti regionali.
- Negli altri paesi del mondo le lingue regionali sono lingue vere e proprie con una tradizione indipendente. In Italia invece abbiamo solo dei dialetti.
In realtà queste sono fantasiose giustificazioni per nascondere una malcelata avversione alla diversità linguistica italiana. Ma la realtà è che noi italiani non siamo diversi da tutti gli altri. Abbiamo certo le nostre peculiarità che ci rendono unici, ma siamo comunque esseri umani.
Le presunte peculiarità che abbiamo elencato qui possono essere applicate tranquillamente anche ad altre realtà in Europa e nel mondo.
Quindi, i nostri “dialetti italiani” non sono strane entità linguistiche che seguono leggi proprie. Sono lingue in tutto e per tutto come quelle della Francia, della Spagna, della Gran Bretagna e di qualsiasi altro angolo del mondo.
Prima ne prenderemo atto, meglio sarà per la nazione italiana. Avremo tutto il tempo di fare maturare la nostra identità nazionale.
Ma se non lo faremo, la nostra fragile identità basata su idee linguistiche ottocentesche rimarrà debole e tremerà ad ogni folata di vento indipendentista.
7. No alla repressione (linguistica e non)
Francisco Franco, durante gli anni della dittatura in Spagna, impedì l’utilizzo pubblico di tutti gli idiomi che non fossero lo spagnolo. Quindi, se venivi pescato a parlare catalano in piazza, ti portavano in caserma.
Insomma, quella fu una vera, tremenda repressione linguistica. Ma è anche vero che in questo modo i Catalani iniziarono a comprendere il valore della propria lingua. Finita la dittatura franchista, infatti, il catalano ha avuto una rinascita sorprendente.
I Catalani però non hanno mai dimenticato i torti nei loro confronti da parte dello Stato spagnolo. E infatti, eccoli in piazza a reclamare l’indipendenza.
Oggi lo stesso errore è stato commesso a livello politico. Manganellare le persone che si sono recate al voto si è rivelato un clamoroso autogol.
Questo dovrebbe essere da monito a tutti quelli che invocano leggi e regolamenti per mettere a tacere le espressioni culturali (e politiche) regionali…
8. Il bilinguismo non è un problema, è una risorsa
In quanto italiani, siamo stati educati a ritenere il monolinguismo come una condizione normale. Di conseguenza, facciamo un po’ fatica a concepire una società dove convivono due lingue.
Tendiamo a pensare che il bilinguismo sia un’eccezione, e che si possa realizzare al massimo in qualche città sul confine, e solo perché è strettamente necessario.
In realtà sarebbe molto meglio che il bilinguismo fosse la regola! Infatti, i vantaggi di essere bilingui sono davvero enormi.
Innanzitutto, evitare di arroccarsi all’interno di una lingua, nazionale o regionale che sia, permette di avere una mente più aperta. Esprimere i concetti in due modi diversi ti rende una persona più tollerante alle diversità.
Ma non è solo questo il vantaggio del bilinguismo. Infatti, gli esperimenti condotti dai linguisti hanno evidenziato che i bambini bilingui sono più intelligenti. Chi cresce con due lingue è avvantaggiato nel’impararne altre. Quindi può apprendere qualsiasi idioma umano in meno tempo e con meno sforzo rispetto ai coetanei monolingui.
Inoltre, i bilingui sono più svegli e meno arroccati sulla difensiva quando incontrano bambini di altre nazionalità.
Se questo non ti basta, pensa che con una società bilingue potremmo avere anche meno costi sociali. E’ provato che il bilinguismo è una vera e propria palestra per il cervello. Parlando due lingue nel corso della vita, le persone hanno meno possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative tipiche della vecchiaia come il morbo di Alzheimer.
Siamo proprio sicuri di voler rinunciare a tutti questi vantaggi per difenderci da una ipotetica deriva catalana? A noi francamente sembra una follia.
9. Seguire il modello delle regioni bilingui non secessioniste
Tutti abbiamo sotto gli occhi la Catalogna: regione con un bilinguismo quasi perfetto ma anche fortemente secessionista. E’ legittimo porsi una domanda: non è che per caso il bilinguismo porta all’indipendentismo?
Fortunatamente la risposta è NO. Il caso della Catalogna, anzi, sembra essere un’eccezione se guardiamo al panorama europeo.
In Europa infatti ci sono diversi esempi di regioni dove vige un regime di bilinguismo e dove l’indipendentismo, se esiste, è una forza molto marginale.
Eccone tre:
Comunità Valenciana
A Valencia si parla catalano, esattamente come in Catalogna. Anche nella Comunità Valenciana, il catalano è tutelato dalla legge, e vige un regime di bilinguismo “totale”. Lo status del catalano, insomma, è lo stesso a Valencia come a Barcellona.
Benché il catalano non venga parlato dalla maggioranza della popolazione (sono presenti molti più ispanofoni rispetto alla Catalogna), secondo tutte le statistiche negli ultimi trent’anni è aumentata la percentuale di persone in grado di parlarlo, leggerlo, comprenderlo.
La specificità culturale e linguistica della Comunità Valenciana tuttavia non ha dato via a un forte movimento indipendentista: anzi, tradizionalmente la regione viene considerata un feudo elettorale del Partito Popolare (cioè il partito di centrodestra dell’attuale primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy).
Galles
In Galles, a partire dagli Anni Novanta, il gallese è lingua co-ufficiale della regione accanto all’inglese.
Il gallese viene usato in tutti i comunicati ufficiali, nella segnaletica stradale, nei lavori all’Assemblea Nazionale.
La BBC del Galles ha nella sua programmazione numerosi programmi televisivi (anche per bambini) in gallese.
Sebbene resti una lingua di minoranza, nell’ultimo decennio l’uso del gallese come lingua principale rimane più o meno stabile attorno al 20% della popolazione.
Contemporaneamente, la maggior parte dei sondaggi dà l’indipendentismo gallese a livelli molto bassi, intorno al 6%.
Alto Adige
Dopo una storia travagliata iniziata con la conquista italiana nel 1918 e proseguita con l’annessione al Terzo Reich nel 1943 e poi col terrorismo negli Anni Sessanta, l’Alto Adige ha ottenuto ampie autonomie locali e, soprattutto, larghe garanzie linguistiche.
Il tedesco e l’italiano (a cui si aggiunge il ladino nelle valli Gardena e Badia) hanno pari dignità ufficiale, e sono usati entrambi nella vita pubblica della provincia.
Anche se ogni tanto riaffiorano tensioni (vedi per esempio la polemica sui nomi di luogo), il governo locale non mette in discussione l’ordine statale: anzi, il suo partito principale, il Partito Popolare Altoatesino (SVP), sostiene addirittura la maggioranza parlamentare di centrosinistra a Roma.
I partiti separatisti altoatesini invece, oltre a presentarsi divisi alle elezioni, nelle ultime tornate elettorali non sono riusciti a conseguire grandi successi.
Questo articolo è stato scritto a quattro mani da Pietro Cociancich, Mike Sciking, Giuseppe Delfino e Michele Ghilardelli.