Quando si parla della necessità di salvare delle lingue in estinzione in quanto patrimonio linguistico immateriale, salta fuori sempre qualche genio del male che afferma:
Ma cosa vuoi che sia! Tanto le lingue si sono sempre estinte e sempre si estingueranno!
L’estinzione linguistica, dunque, sarebbe un fenomeno normale, pertanto non è il caso di allarmarsi perché va tutto bene.
In realtà, studiando la linguistica storica ci si rende conto che l’estinzione di una lingua non è una condizione normale della storia di un popolo.
Non sono riuscito a trovare casi in cui una popolazione ha deciso di abbandonare la propria lingua perché si era stancata di usarla.
Anzi, sembrerebbe proprio il contrario: una comunità abbandona una lingua solo quando c’è una spinta molto forte per la sostituzione linguistica.
In questo articolo ho voluto fare un po’ di chiarezza sulla questione, smontando il mito secondo cui “le lingue muoiono da sole“.
La lingua si estingue in tempi lunghi
L’estinzione di una lingua è in genere un fenomeno lunghissimo che può richiedere diversi secoli, anche quando le condizioni sociali ed economiche cambiano repentinamente.
Il caso della romanizzazione linguistica
Un esempio cardine è proprio l’Europa. Il nostro continente prima della conquista romana era una vera e propria Babele di lingue molto diverse tra loro. Oggi la maggior parte di quegli idiomi è scomparsa per lasciare posto al latino, poi evolutosi nelle lingue romanze. Perchè?
I Romani non imposero mai il latino alle popolazioni conquistate. La diffusione del latino fu piuttosto una conseguenza delle innovazioni portate dalla civiltà romana.
L’efficiente rete stradale romana ebbe un impatto incredibile sullo sviluppo dell’economia e della società, sconvolgendo di conseguenza anche gli usi linguistici.
Grazie alle strade romane si creò un sistema di libero scambio in cui persone e cose potevano muoversi liberamente dalla Scozia fino in Egitto. Questo accadeva in luoghi dove la società preesistente era perlopiù strutturata in piccoli villaggi, mentre mari e boschi pieni di predoni dividevano i centri urbani l’uno dall’altro.
Inoltre, il potere romano rinforzò il ruolo delle città, che divennero il fulcro della vita sociale. Molte di queste erano colonie romane, e quindi erano abitate da persone che avevano il latino come lingua madre. Se le città erano di fondazione più antica, Roma si premurava di stabilirvi una élite dominante romanizzata. In entrambi i casi, le città favorirono la diffusione della lingua e della cultura latina in vaste zone dell’Impero.
Ci verrebbe da credere che le lingue preromane si siano estinte prestissimo, in 5-6 generazioni al massimo dall’arrivo di Roma (quindi in circa 100-150 anni). Invece le evidenze storiche mostrano una realtà molto differente.
- L’etrusco, che veniva parlato in località molto vicine a Roma, è certamente sopravvissuto fino al I secolo d.C. Sappiamo che l’imperatore Claudio era in grado di comprenderlo e parlarlo. Ne fu un cultore, compilandone un dizionario che purtroppo è andato perduto.
- San Gerolamo ci riporta la notizia che il gallico (la lingua parlata nella Francia e nel nord Italia prima della conquista romana) era ancora parlato alla sua epoca. Stiamo parlando del VI secolo d.C. dunque dopo caduta dell’Impero Romano d’Occidente!
- Il greco della Magna Grecia, addirittura, è sopravvissuto fino ai giorni nostri! Anche se oggi i grecofoni d’Italia sono arroccati in piccoli villaggi dell’Aspromonte e del Salento, nel Medioevo le parlate elleniche erano ampiamente diffuse nell’Italia meridionale, e in certe zone, come la Calabria, il Sicilia orientale e la Puglia, per molto tempo furono maggioritarie. E no, i Greci non sono arrivati ai tempi dell’Impero Bizantino. Erano già lì prima di Roma.
Se le parlate preromane sono sopravvissute per svariati secoli nonostante la romanizzazione, possiamo dedurre che una comunità abbandona la propria lingua in tempi lunghi (nell’ordine di secoli), anche quando l’assetto politico e sociale cambia completamente.
Quando l’estinzione linguistica è rapida
A volte nella storia si assiste alla scomparsa di una lingua nel giro di poche generazioni. Destino inevitabile? Non proprio.
Studiando la storia delle lingue, infatti, ci si accorge che le estinzioni rapide si possono ricollegare a 3 dinamiche.
1. I parlanti sono stati eliminati fisicamente
Questo è il caso di molte lingue native americane che erano parlate da gruppi molto piccoli. Le malattie, le persecuzioni e le migrazioni hanno portato queste popolazioni all’estinzione insieme alle loro lingue.
Ci sono casi che ricordano un po’ la storia del film L’ultimo dei mohicani: di un’intera tribù decimata rimaneva un solo individuo, l’ultimo parlante della lingua del suo popolo.
E’ il caso di Ishi, l’ultimo membro degli Yahi della California, morto nel 1916. Scampato allo sterminio della sua tribù quando era ragazzo, è stato l’ultimo individuo in grado di parlare la lingua Yahi.
Per fortuna il celebre linguista Edward Sapir riuscì a intervistarlo e a registrarlo, in modo che la memoria dell’idioma sopravvivesse almeno nella letteratura scientifica.
In Tasmania andò peggio. Infatti, le popolazioni aborigene locali furono sterminate in pochi decenni dai coloni britannici. Le lingue aborigene locali si sono totalmente estinte insieme ai loro parlanti.
L’ultima a scomparire fu la lingua dei Palawa. Questo era idioma materno di Fanny Cochrane Smith. Fu proprio grazie a lei che oggi possediamo una documentazione di quella antica lingua. La signora Fanny nel 1903 fu registrata con un fonografo a cilindri di cera, consegnando ai posteri la registrazione di alcune canzoni tradizionali.
2. I parlanti si trovano frammentati in un ambiente che parla una lingua diversa
Cosa succede quando una famiglia si trova in un ambiente sociale dove nessuno parla la sua lingua nativa?
In genere si attiva questa dinamica, nota ai linguisti come ciclo delle tre generazioni:
- La prima generazione continua ad usare la lingua nativa. Apprende la nuova lingua e la parla con i propri figli.
- La seconda generazione conosce entrambe le lingue, ma ha una conoscenza passiva della lingua dei genitori (quindi è in grado di comprenderla ma non di parlarla). Nella vita di tutti i giorni parla solo nella nuova lingua.
- La terza generazione conosce solo la nuova lingua, dato che è l’unica che ha sentito dai genitori. Non è in grado di comprendere la lingua dei nonni, o ne ha una conoscenza molto limitata.
Risultato? La lingua si estingue nel giro di 3 generazioni.
Questo caso è bene esemplificato dalle comunità di immigrati europei in America.
Nel XIX secolo negli Stati Uniti arrivarono moltissimi immigrati provenienti da tutta Europa. Le lingue d’origine sono sopravvissute solo dove c’era una comunità abbastanza numerosa. E’ il caso degli italoamericani di New York. Molti di loro conoscono ancora la lingua napoletana dei loro nonni perché nella città americana è presente una comunità italoamericana piuttosto folta che ne permette l’uso quotidiano e la trasmissione generazionale. Le famiglie che si sono stabilite fuori dalle comunità italoamericane, trovandosi in un ambiente sociale anglofono incapace di comprendere il napoletano, raramente sono riuscite a mantenere l’idioma originario per più di 3 generazioni.
Anche dalle nostre parti si nota un fenomeno simile. Nell’Italia settentrionale, ad esempio, sta accadendo la stessa cosa alle comunità che parlano lombardo, ligure, piemontese ed emiliano-romagnolo.
- I nonni parlano la lingua locale con i coetanei, ma non con i figli, che sono stati educati in italiano.
- I figli comprendono la lingua locale, ma non la usano. In famiglia usano solo l’italiano.
- I nipoti sono esclusivamente italofoni. Non sono in grado di esprimersi in lingua locale e la capiscono poco o per nulla.
Questa situazione è a dir poco allarmante. Qualsiasi esperto in pianificazione linguistica ci leggerebbe un codice rosso.
Quindi, se senti qualcuno dire che è normale e che va bene così, sappi che non è competente in materia o è a favore dell’estinzione del “dialetto”.
Forse ora ti starai chiedendo: ma cosa c’entra chi parla piemontese o ligure con le lingue degli emigrati?
La somiglianza c’è, anche se è sottile. Infatti, in entrambi i casi i parlanti si sono trovati in una società che parlava una lingua diversa da quella della famiglia.
Solo che i primi (gli emigranti) erano effettivamente immersi in un mare di anglofoni. I secondi (piemontofoni, genovesofoni ecc.) hanno la percezione di trovarsi in una società dove l’italiano è l’unica vera lingua.
Strano… ma vero!
Pensa a quante volte hai sentito dire frasi del tipo:
- Il dialetto è la lingua degli affetti
- Il dialetto va parlato in famiglia
- In città non parlano in dialetto
- Parliamo in italiano così ci capiamo tutti
- Se parlo dialetto stretto non mi capisce nessuno
- Se parli in dialetto a quelli del paese vicino non ti capiscono
Ecco, è proprio a questo che mi riferisco.
3. Le istituzioni spingono gli individui verso la sostituzione linguistica
In questo caso l’estinzione linguistica è fortemente voluta dalle istituzioni o dal gruppo sociale dominante.
Diretta conseguenza di questo atteggiamento, la lingua diventa un motivo di discriminazione e quindi viene abbandonata dai parlanti a favore della lingua più forte.
Gli esempi nella storia purtroppo solo tantissimi. Uno dei più drammatici fu quello dell’irlandese.
Il regresso del gaelico
Gli Statuti di Kilkenny, risalenti al Trecento, riportano l’assoluto divieto da parte degli Inglesi di esprimersi in gaelico irlandese. Questo provvedimento si può interpretare come l’inizio del declino della lingua a favore dell’inglese. In realtà all’epoca gli anglofoni erano una minoranza nell’Isola Verde, e il provvedimento serviva tutt’al più ad evitare che gli Inglesi venissero assimilati dal popolo irlandese.
Nel Seicento abbiamo un altro atto di forza da parte del governo inglese: il Flight of the Earls, ossia la cacciata dei nobili gaelici dall’isola. Da quel momento le élite culturali irlandesi iniziarono a utilizzare la lingua inglese, che si diffuse dapprima nelle città per poi conquistare i centri minori.
Tra Settecento e Ottocento l’irlandese ricevette un colpo durissimo: da una parte le città ormai anglofone iniziarono a sviluppare l’industria, mentre le campagne gaelofone furono vittima di carestie e povertà estrema che spinsero molti gaelici ad emigrare. Il gaelico irlandese era ormai associato all’immagine del povero, dell’emigrante, del contadino ignorante e affamato.
A questo si univa una ormai secolare antipatia per il gaelico da parte del governo britannico, alimentata anche da motivi religiosi (i gaelici erano cattolici, gli anglofoni protestanti).
Date le condizioni, gli Irlandesi iniziarono a vergognarsi della propria lingua, abbandonandola.
È per questo motivo che oggi in Irlanda la lingua di tutti i giorni è l’inglese, tranne che in poche aree rurali.
L’irlandese è forse il caso di regressione linguistica più drammatico nell’Europa moderna, ma per fortuna la lingua non si è persa del tutto, e oggi è addirittura in ripresa.
Purtroppo per molte lingue non c’è stato il lieto fine.
Come si estinse la lingua dell’Egitto
Il copto era una lingua dalle origini antichissime, che discendeva direttamente dall’antica lingua egizia dei Faraoni. Si estinse definitivamente alle soglie del Seicento, sopraffatta dall’arabo.
Ma andiamo con ordine. Nel VII secolo l’Egitto era un paese cristiano e faceva parte dell’Impero Romano d’Oriente. La lingua ufficiale delle istituzioni era il greco, ma la popolazione parlava prevalentemente la variante moderna della lingua egizia che prendeva il nome di lingua copta.
Tuttavia, quando gli Arabi conquistarono la valle del Nilo, la situazione sociolinguistica cambiò. I nuovi dominatori portarono la lingua araba e la religione islamica.
Molti cristiani di madrelingua copta si convertirono all’Islam e adottarono l’arabo. Parlare la lingua araba da una parte permetteva di comunicare con le istituzioni, ma dall’altra parte permetteva anche di entrare in comunanza con l’élite araba dominante.
Insomma, per fare carriera bisognava essere arabofoni. E se parlavi copto? Avresti fatto sapere a tutti che facevi parte del popolino poco istruito, e che probabilmente eri anche un dhimmi (un infedele a cui è concessa la libertà di culto dietro pagamento di una tassa). La tua “arrampicata sociale” sarebbe quindi partita da una posizione di netto svantaggio. Ecco spiegato perché in Egitto il copto venne abbandonato.
Insomma, quando una comunità perde la propria lingua in poche generazioni, alla base c’è un trauma sociale. La sostituzione linguistica non è mai rose e fiori, ma un processo che a seconda dei casi comprende:
- Violenza
- Povertà
- Migrazioni
- Vergogna per la propria identità
- Senso di inferiorità culturale
e potremmo andare avanti a lungo…
Se pensi che si tratti di barbarie che ormai fanno parte del trapassato remoto, ho una brutta notizia da darti. Situazioni simili esistono ancora nell’Italia di oggi… ma questa è un’altra storia.