L’ebraico ha avuto una storia incredibile: lingua uscita dall’uso vivo già prima di Cristo, è stata ricuperata e oggi è parlata da milioni di persone. Com’è potuto succedere? Davvero una lingua può riemergere dall’oblio?
E cosa ci può insegnare questa vicenda?
Le lingue degli Ebrei nella Storia
Le origini dell’ebraico
La lingua ebraica fa parte della grande famiglia semitica, assieme all’arabo, all’aramaico, all’assiro, all’accadico, al babilonese, al fenicio, nonché al ge’ez (antica lingua etiope), al tigrino, all’amarico. Le vicinanze lessicali con alcune lingue semitiche sono forti ancora oggi. Vediamo un brevissimo confronto con l’arabo:
- ebraico shalom, arabo salam (pace)
- ebraico melech, arabo malik (re)
- ebraico Elohim, arabo Allah (Dio)
Nata come varietà di alcune tribù nomadi della Mesopotamia, divenne successivamente la lingua ufficiale del Regno di Israele, nonché quella liturgica della sua religione.
Tra le lingue del mondo antico, essa è una di quelle con la storia più lunga, ed è legata soprattutto a un immenso progetto letterario e religioso, sviluppatosi in molti secoli di redazione: la Bibbia, libro sacro del popolo ebraico, in cui sono presenti passi mitici, storici, poetici e profetici di altissimo livello.
La Bibbia ci informa di alcune differenze dell’ebraico rispetto alle lingue circostanti. È il caso del famoso episodio della shibboleth, citato nel Libro dei Giudici (Gdc 12, 5-6):
I Galaaditi occuparono i guadi del Giordano in direzione di Èfraim. Quando uno dei fuggiaschi di Èfraim diceva: “Lasciatemi passare”, gli uomini di Galaad gli chiedevamo: “Sei un Efraimita?”. Se rispondeva: “No”, i Galaaditi gli dicevano: “Ebbene, di’ shibbòleth”, e se quello diceva “Sibbòleth”, non riuscendo a pronunciare bene, allora lo afferravano e lo uccidevano presso i guadi del Giordano.
Nel VII secolo A.C. l’ebraico era ancora la lingua parlata tra la popolazione; a questo proposito, c’è la testimonianza preziosa del Libro di Isaia (Is 36, 11-13), che riferisce di un dialogo tra degli ambasciatori del Regno di Giudea e l’araldo del re assiro Sennacherib, che stava assediando Gerusalemme:
Eliakìm, Sebna e Iòach risposero al gran coppiere: “Per favore, parla ai tuoi servi in aramaico, perché noi lo comprendiamo; non parlarci in giudaico: il popolo che è sulle mura ha orecchi per sentire”. Il gran coppiere replicò: “Forse il mio signore mi ha invitato per pronunciare rali parole al tuo signore e a te, e non piuttosto agli uomini che stanno sulle mura, ridotti a mangiare i propri escrementi e a bere la propria urina con voi?”. Il gran coppiere allora si alzò in piedi e gridò a gran voce in giudaico: “Udite le parole del grande re, del re d’Assiria!”.
Da ciò si capisce che, ancora in quel periodo, l’ebraico era vitale, e che l’aramaico suonava ancora come una lingua straniera.
Il declino della lingua
Tuttavia, nei secoli successivi la situazione cambia: le invasioni assire e babilonesi, il saccheggio di Gerusalemme (capitale politica e religiosa degli Ebrei) e l’inizio della Diaspora cominciano a minare l’unità linguistica del popolo ebraico:
- l’aramaico, lingua franca dell’impero assiro (e successivamente anche di quello babilonese e persiano), si diffonde anche nella terra di Israele;
- nelle comunità sparse nel Mediterraneo, gli Ebrei si adattano alla lingua locale: è il caso, per esempio, della comunità di Alessandria, che è di lingua greca
Il nuovo multilinguismo degli Ebrei si riflette anche nella redazione dei testi biblici: è il caso del Libro di Ester (scritto in ebraico, ma con aggiunte indipendenti in greco) e del Libro di Daniele (con sezioni in ebraico, aramaico e greco). Altri libri (generalmente non considerati canonici dagli Ebrei, ma accettati da alcune confessioni cristiane) sono scritti direttamente in greco: è il caso dei Libri dei Maccabei, cronaca della ribellione degli ebrei contro i sovrani ellenistici e pagani.
D’altro canto, nel III secolo a.C. l’intera Bibbia ebraica viene tradotta nel greco di koiné, in una versione nota come “dei Settanta” (il numero di saggi che avrebbero preso parte all’opera). Allo stesso modo, si procedette con una traduzione (o perlomeno con dei riassunti) della Bibbia ebraica in aramaico.
Ai tempi della dominazione romana, la società ebraica conosceva dunque l’uso di almeno tre lingue: l’aramaico come lingua parlata, l’ebraico come lingua liturgica e il greco come lingua di comunicazione con gli stranieri.
I più importanti autori ebraici dell’epoca romana, cioè Giuseppe Flavio (ca. 37-100) e Filone d’Alessandria (ca. 20 a.C.-45 d.C.), scrissero le loro opere in greco.
L’influenza dell’aramaico nella vita degli Ebrei fu così rilevante che l’attuale alfabeto ebraico (usato anche per scrivere in altre lingue ai tempi della Diaspora) deriva da quello usato per l’aramaico.
Testimonianze dal Nuovo Testamento
Il Nuovo Testamento ci offre diversi indizi per capire quale fosse la situazione linguistica in Giudea ai tempi di Gesù, il quale con tutta probabilità era di madrelingua aramaica, come d’altronde tutti i suoi discepoli.
I Vangeli e gli Atti degli Apostoli sono ricchissimi di citazioni di parole aramaiche (anche se in forma grecizzata):
- frasi: talitha koum (alzati e cammina); effatha (apriti); Elì Elì lemà sabactani (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?)
- nomi di persona: Thomâs (gemello), Kephâs (pietra), Tabeithà (gazzella)
- nomi di luogo: Gethsemanei (frantoio), Gólgotha (cranio), Achedalmà (campo di sangue)
Lo stesso aramaico era ormai così diffuso da aver sviluppato delle varianti locali, come testimoniato da un famoso passo del Vangelo di Matteo (Mt 26, 69-73):
Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane serva gli si avvicinò e disse: “Anche tu eri con Gesù, il Galileo!”. Ma egli negò davanti a tutti dicendo: “Non capisco cosa dici”. Mentre usciva nell’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: “Costui era con Gesù, il Nazareno”. Ma egli negò di nuovo, giurando: “Non conosco quell’uomo!”. Dopo un poco, i presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: “È vero, anche tu sei uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce!”.
Gli Atti degli Apostoli (At 2, 3-11) ci informano che gli Ebrei sparsi per il mondo avevano adottato le lingue locali dei posti dove vivevano. Questo fa sì che molti di essi rimanessero sbalorditi quando, nel giorno di Pentecoste, sentirono gli Apostoli predicare in tutte le lingue:
Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé dalla meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”.
Sempre a proposito del Nuovo Testamento, è interessante ricordare che è integralmente scritto in greco, anche se pare che il Vangelo di Matteo sia una traduzione da un testo in aramaico (cosa provata dalla presenza di alcuni calchi linguistici da una lingua semitica).
L’età della Diaspora e le sue lingue
In seguito alle rivolte giudaiche del 69-70 e del 132-135, i Romani vollero sradicare la popolazione ebraica in Israele. Gerusalemme venne ribattezzata Ælia Capitolina e i suoi abitanti vennero cacciati via; dopo il 135 la provincia di Giudea venne chiamata Palestina (in onore dei Filistei, storici nemici degli Ebrei).
A partire dal I secolo, e per i successivi 1800 anni, gli Ebrei sarebbero stati una minoranza nella loro Terra Promessa, riducendosi a piccole comunità in centri periferici come Safad ed Hebron. Gli Ebrei rimasti in Palestina continuarono a parlare l’aramaico fino ai tempi della conquista araba, nel VII secolo.
L’ebraico venne mantenuto come lingua scritta, per esempio per la letteratura rabbinica, sempre più importante dopo la distruzione del Tempio.
Il resto degli Ebrei sparsi per il mondo invece si adattarono, come i loro antenati, a parlare le lingue dei luoghi in cui vivevano. Con l’avvento del Cristianesimo, la condizione degli Ebrei europei entrò in una lunga fase di precarietà, persecuzioni e discriminazioni: dalla complessa vicenda degli Ebrei d’Europa ebbero origine molti interessanti fenomeni linguistici.
Tra questi possiamo ricordare:
- il ladino (o giudeo-spagnolo): una varietà spagnola di origine medievale, che gli ebrei sefarditi continuarono a parlare anche quando vennero espulsi dalla Spagna nel 1492 ed emigrarono nei domini ottomani. È celebre il caso di Salonicco: città greca sotto il dominio turco e popolata da una vasta comunità di ebrei che parlavano uno spagnolo antico!
- lo yiddish: una varietà alto-tedesca (anche se con alcune differenze dal tedesco standard, come la mancanza di ü e ö), parlata soprattutto negli shtetl disseminati tra il Regno di Polonia e l’Impero Russo
L’origine germanica degli ebrei ashkenaziti si vede ancora oggi in molti cognomi: Theodor Herzl era ungherese, Elie Wiesel romeno, Simon Wiesenthal era nato in Ucraina, Lev Bronstein (detto Trockij) era russo, Alfred Dreyfus era francese, Allan S. Königsberg (detto Woody Allen) è americano di origine probabilmente ungherese o russa.
Va ricordato che tutt’oggi lo yiddish è l’unica lingua non ufficiale (assieme al provenzale) che abbia avuto un suo autore vincitore del Nobel per la Letteratura: Isaac Bashevis Singer (1902-1991).
In Italia le comunità ebraiche svilupparono diverse varietà locali note col nome di “giudeo-italiano“: nel Medioevo si era diffusa una koinè letteraria con influssi centromeridionali, mentre con la nascita dei ghetti (XVI secolo) nacquero varianti dei dialetti delle città in cui gli ebrei erano confinati. Possiamo citare, per esempio, Casale Monferrato, Mantova, Modena, Ferrara, Venezia, Roma.
A Livorno, dove il ghetto non era stato istituito, la comunità ebraica sperimentava un curioso multilinguismo tra ebraico, spagnolo, portoghese e toscano ‘ebraicizzato’.
Simili fenomeni si svilupparono anche con l’arabo, il greco, il persiano.
Nel corso di tutta la storia della Diaspora, l’ebraico sopravvive tenacemente come lingua liturgica e letteraria (pensiamo al Talmud, o alle opere filosofiche di Maimonide), penetrando con alcuni prestiti lessicali in tutte le lingue locali ebraiche, siano esse di origine romanza, germanica, greca o araba. Con l’Umanesimo e il Rinascimento, inoltre, l’ebraico diventa materia di studio per molti dotti studiosi cristiani.
D’altronde, già nel Medioevo l’ebraico era tenuto in grande considerazione, e da molti era considerato la lingua originale di tutto il genere umano. Così, per esempio, si esprime Dante nel De Vulgari Eloquentia (Libro 1, capitolo 6):
Tornando dunque al nostro argomento, dico che da Dio fu creata […] una data forma di linguaggio. […] In questa forma di linguaggio parlò Adamo; in questa parlarono i suoi discendenti fino alla costruzione della torre di Babele, che significa ‘torre della confusione’; questa hanno ereditato i figli di Eber, che da lui furono chiamati Ebrei. Soltanto a costoro essa rimase dopo Babele, affinché il nostro Redentore, che da essi doveva nascere secondo la carne, potesse usare non una lingua della confusione ma quella della grazia. Fu dunque l’idioma ebraico che fabbricarono le labbra del primo parlante.
In questo senso, possiamo vedere l’ebraico come una versione semitica del latino: una lingua letteraria e religiosa, di grande prestigio, studiata da molti e parlata da nessuno.
La rinascita dell’ebraico
La situazione nel XIX secolo
La storia del popolo ebraico arriva a un punto di svolta nel corso dell’Ottocento. La Rivoluzione Francese (1789) ha dato loro, per la prima volta, gli stessi diritti civili e politici di tutti gli altri cittadini; il Romanticismo e il nazionalismo ha risvegliato in alcuni di essi il desiderio di una Patria ebraica, dove riunire tutte le comunità ebraiche sparse sulla Terra.
Questa cosa si riflette anche dal punto di vista linguistico: la fine dei ghetti determina la scomparsa progressiva dei vecchi dialetti ebraici, e gli israeliti si adattano velocemente alla lingua parlata dai loro concittadini. Le grandi lingue di cultura degli ebrei dell’Ottocento sono il tedesco, il francese, l’inglese. Resistono alla livellazione linguistica lo yiddish (parlato a metà del XX secolo da milioni di persone) e, più in piccolo, il ladino.
Un gran numero di ebrei vive in un ambiente estremamente vivace dal punto di vista linguistico. Prendiamo il caso dello scrittore Elias Canetti (1905-1994), Nobel per la Letteratura nel 1981: nato in Bulgaria da una famiglia sefardita, da piccolo parlava in ladino, ma scrisse soprattutto in tedesco e morì da cittadino britannico.
Molti ebrei orientali emigrati negli Stati Uniti finiscono per adottare l’inglese: la migrazione negli USA è molto importante, perché ancora oggi in quel Paese vive circa la metà di tutti gli ebrei del mondo.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la “questione ebraica” diventa centrale per molti ebrei: l’antisemitismo non è scomparso, e anzi ha assunto nuove forme dai tempi dello scontro col Cristianesimo. Per moltissimi ebrei, a oriente e a occidente, la vita è ancora dura e piena di pericoli. L’idea di uno Stato ebraico assume sempre più peso tra gli intelletuali ebrei (anche se sarà minoritaria fino al 1945 circa). Nasce il movimento sionista, che presto individuerà la Palestina come casa naturale della Patria ebraica.
In questo frangente, ovviamente, l’ebraico è solo la lingua dei riti religiosi del sabato. Ma la situazione sta per cambiare inaspettatamente.
Eliezer Ben Yehuda
L’ostacolo maggiore al nazionalismo ebraico era quello della lingua, poiché gli Ebrei sparsi nel mondo parlavano tantissime lingue diverse. Questo, soprattutto nell’Ottocento, era considerato un problema non da poco, perché una Nazione veniva considerata tale se, tra le varie cose, si identificava in una stessa lingua. Quale sarebbe stata, dunque, la lingua del futuro stato ebraico? Come avrebbe potuto emanciparsi la nazione ebraica senza una lingua comune che fungesse da collante?
Nonostante molti proponessero il tedesco (come il padre del sionismo, Herzl), il francese o lo yiddish, si fece sempre più strada l’idea di riutilizzare la Lingua per eccellenza: l’ebraico. Ma come fare a utilizzare in un contesto moderno una lingua oramai usata solo per la religione? Come impiegarla e adattarla alle questioni di tutti i giorni, anziché soltanto per parlare con Dio (in cui non tutti gli ebrei credevano più)?
Iniziò così, da parte di alcuni attivisti, un’intensa opera di modernizzazione e ‘laicizzazione’ della lingua ebraica. Nel 1853 viene pubblicato il primo romanzo in ebraico ‘moderno’, ossia Ahavat Tsiyon (“l’amore di Sion”), da parte di Abraham Mapu. Sorgono inoltre giornali e riviste in ebraico.
Tuttavia, non si può parlare della rinascita dell’ebraico senza nominare la figura di Eliezer Ben Yehuda (nato Leib; 1858-1922). È lui il primo a definire in modo chiaro e preciso la necessità di ricostruire l’ebraico come lingua viva e d’uso per il popolo ebraico. Sapendo che non è facile reintrodurre l’ebraico in Europa, dove l’influenza delle lingue locali e nazionali è troppo forte, Ben Yehuda dirige i suoi sforzi altrove: in Palestina, dove un numero sempre crescente di ebrei ha già cominciato a migrare.
Giunto in Palestina nel 1881, Ben Yehuda si impegna a far sì che l’ebraico sia la lingua di insegnamento primario nelle scuole degli ebrei. Per dare il buon esempio, parla al proprio figlio Ben-Zion solo in ebraico, imitato da amici e seguaci. In questo modo si dà vita alla prima generazione di madrelingua ebraici da più di 2000 anni. Gli ebrei che a cavallo tra XIX e XX secolo effettuano la “salita” (aliyah) in Palestina, si trovano circondati da un ambiente sempre più ebreofono, e vi si adattano.
Resurrezione di una lingua
In breve tempo, grazie alla tenacia degli attivisti della lingua, l’ebraico è sempre più diffuso nell’antica terra di Israele, al tempo sotto il dominio ottomano. Nelle località dove gli ebrei stan diventando maggioranza (per esempio Tel Aviv, fondata nel 1909) l’ebraico è sempre più la lingua prevalente.
Nel 1917 le forze britanniche occupano la Palestina, ponendo fine al governo turco. In seguito ai trattati di pace, la regione è posta sotto amministrazione britannica: le lingue ufficiali, secondo lo statuto del 1922, sono l’inglese, l’arabo e, a sorpresa, anche l’ebraico. Eliezer Ben Yehuda muore a Gerusalemme pochi mesi dopo, dopo essere riuscito a coronare il sogno di una vita.
Ormai il destino della lingua ebraica si lega sempre di più all’ideale sionista, e ne diventa uno dei pilastri identitari. Comincia a nascere anche una letteratura originale in ebraico, che nei decenni successivi troverà tra i suoi autori grandi scrittori come Amos Oz, Abraham Yeoshua o David Grossmann. Diventando lingua parlata, l’ebraico riesce gradualmente ad affrancarsi dai modelli ‘classici’ (biblici, rabbinici…) dei primi tempi, sviluppando anche un registro colloquiale, indispensabile per l’uso quotidiano.
La consacrazione definitiva arriva nel 1948, con la nascita dello Stato di Israele. Gli ebrei hanno infine il tanto sognato Stato nazionale, e l’ebraico ne diventa la lingua ufficiale (assieme all’arabo).
Nel frattempo, si assiste al declino delle altre lingue ebraiche: questo è dovuto anche al terrificante massacro di ebrei nel corso della Shoah, che sradica e cancella comunità secolari in tutta Europa. Molti sopravvissuti alla strage nazista si trasferiscono in Israele, e ne adottano la lingua. Lo stesso accade per i membri delle comunità ebraiche del Medio Oriente (comne lo Yemen o il Marocco), che vengono espulsi dai loro Paesi, ostili a Israele.
Le progressive ondate migratorie (le più recenti dai Paesi dell’ex URSS) contribuiscono all’evoluzione dell’ebraico parlato, che assume modi di dire e parole delle lingue dei migranti. Può succedere che i vari gruppi nazionali (ashkenaziti, sefarditi, yemeniti, etiopi…) pronuncino in modo diverso le parole, proprio per l’influenza dell’antica lingua del paese di origine.
In epoca recente l’inglese (terza lingua ufficiale de facto, per aiutare gli stranieri che non conoscono l’ebraico e il suo alfabeto) influenza la lingua parlata con calchi sintattici e lessicali. Il che, d’altronde, capita anche con l’italiano.
Al giorno d’oggi, l’ebraico è la lingua madre di circa sette milioni di persone, ed è veicolare tra ebrei e arabi israeliani o palestinesi. L’ebraico è, assieme all’inglese, la grande lingua di cultura degli ebrei di oggi. Si può dire, senza ombra di dubbio, che la lingua ebraica sia riemersa dal suo oblio. Un caso quasi unico nella Storia.
Conclusioni
Se vogliamo vedere i lati negativi, la rinascita e affermazione dell’ebraico:
- ha portato al fortissimo declino delle altre lingue ebraiche, inclusi il ladino e lo yiddish
- ha portato un popolo tradizionalmente poliglotta a un forte monolinguismo
Inoltre, si corre il rischio che l’ebraico rimanga legato in modo indissolubile al nazionalismo sionista: una tendenza confermata da una recente legge (19 luglio 2018) voluta dal governo israeliano, che rende l’ebraico la sola lingua ufficiale di Israele, togliendo all’arabo lo status di coufficialità.
È chiaro che le condizioni che han portato al recupero quotidiano di una lingua morta sono pressoché uniche: la storia del popolo ebraico è praticamente irripetibile.
Tuttavia, da questa storia possiamo imparare delle importanti lezioni, che possono aiutarci nella nostra battaglia per le lingue locali.
- è possibile svecchiare l’immagine di una lingua considerata antica e relegata a usi ristretti: una bella risposta a chi, per esempio, dice che i “dialetti” sono legati solo alla cultura contadina di un tempo
- è possibile creare un movimento di attivisti consapevoli e preparati che usino la lingua per usi moderni e quotidiani: alla faccia di chi dice che usare i “dialetti” per parlare di medicina o fisica sia “una forzatura”
- è possibile insegnare una lingua antica ai propri figli, e anche insegnarla a scuola come lingua veicolare: in barba a chi sostiene che sia impossibile, se non addirittura inutile o dannoso
- è possibile riportare una lingua parlata da poche persone all’uso amministrativo e ufficiale: con buona pace di chi ritiene che lo ritiene una perdita di tempo
Certo, non è un percorso facile: ci vuole studio, ci vuole pazienza, ci vuole determinazione, ci vuole coraggio; qualcuno potrebbe dire che ci vuole fede.
Ma se si può riportare in vita una lingua morta da 2000 anni, si potrà bene risollevare le sorte di quelle che ancora oggi sono parlate, sono scritte, possono essere registrate e insegnate da persone capaci di parlarle?
Si può cominciare con poco, parlando nelle nostre lingue ai figli. L’ebraico ha cominciato la sua nuova vita dalla bocca del solo figlio di Eliezer Ben Yehuda, e ora è su quella di sette milioni di persone.
Come scrive il famoso profeta Ezechiele (Ez 17, 22-23):
[…] Anche io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami coglierò un ramoscello,
e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni voltatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
È giunta l’ora di fare crescere anche il nostro cedro!