Che i cosiddetti “dialetti” siano in realtà lingue diverse dall’italiano è, ammettiamolo, un segreto di Pulcinella.
Non lo si riesce ancora ad ammettere, per una qualche specie di pudore: ma chiunque si rende conto che è una sensazione profondamente diffusa nell’opinione pubblica. Le ironie sul bergamasco simile alle lingue barbare, o sui sottotitoli da mettere quando si guarda Gomorra (oppure gli sketch di Aldo Giovanni e Giacomo sul sardo) non ne sono che una piccola spia; forse non fondamentale, ma di certo significativa.
Eppure, questo pudore rimane, e non si riesce a compiere il passo ulteriore.
Come mai?
Diciamo che, per l’uomo della strada come per l’intellettuale, si conserva una distinzione sociologica: i “dialetti” sono tali perché subordinati culturalmente all’italiano. Per le cose quotidiane il dialetto va bene, ma per le “cose serie” serve la lingua; per parlare di agricoltura e pastorizia il dialetto è molto indicato, ma per gli argomenti più sofisticati è necessaria la lingua; nel ristretto mondo degli affetti il dialetto va più che bene, ma in società non si può fare a meno dell’italiano.
In effetti è quello che viene spesso registrato nei dizionari italiani come definizione della parola “dialetto”; secondo l’Enciclopedia Treccani, per esempio, con “dialetto” si intende un “sistema linguistico di ambito geografico o culturale limitato, che ha non ha raggiunto o che ha perduto autonomia e prestigio”.
In parole povere: una sotto-lingua.
A questa definizione, di per sé già non molto gentile, si aggiunge un sottointeso, chiaro a tutti: “e sarà così per sempre”. Insomma: secondo questa regola non scritta, se un dialetto è tale, non ha alcuna possibilità di cambiare condizione; dialetto era, è e sarà. Per cui rimanga al suo posto.
Ma è davvero così?
Siamo davvero sicuri che nessuna lingua possa risollevarsi da una situazione di minorità?
Eppure, vedendo alcune delle lingue che più hanno influito sulla storia e la cultura europea, si potrebbero trarre altre conclusioni:
- il greco antico fu per millenni una lingua divisa in tanti dialetti, parlati da una popolazione piccola, povera e litigiosa;
- il latino era una lingua di campagnoli bellicosi, subiva l’influenza dell’etrusco, ed ebbe come prima opera letteraria una traduzione dal greco (fatta, per giunta, da un greco);
- il tedesco, pur iniziando la sua carriera come “lingua dei barbari”, è stato poi usato per scrivere le opere di alcuni dei più importanti poeti e filosofi dell’età moderna;
- l’inglese, infine, prima di diventare la nuova lingua universale, fu a lungo disprezzato dai nobili normanni, che per almeno duecento anni gli preferirono il francese.
Certo, qualcuno potrebbe dire che stiamo parlando di lingue importanti, usate da imperi di grandi dimensioni. Vediamo dunque i casi di alcune lingue prive di impero.
Lingue che… non dovrebbero essere lingue
L’ebraico
Questa lingua semitica (nata come idioma di pastori nomadi) cominciò ad andare in disuso già più di 2000 anni fa, venendo sostituita gradualmente dal ben più diffuso aramaico (nemmeno Gesù era di madrelingua ebraica).
Per molti secoli l’ebraico venne usato solo come lingua dei testi sacri (per quelli profani veniva preferito il greco), e questo vuol dire che la maggioranza della popolazione non lo conosceva. La situazione peggiorò ancora con la diaspora ebraica.
Tuttavia, a partire dal XIX secolo, la tenacia e la determinazione di parte del mondo sionista riuscì a “scongelare” una lingua ibernata da millenni; un vasto movimento di autori e attivisti trasformò l’antica lingua della Bibbia in un idioma moderno e utilizzabile.
Oggigiorno è la lingua ufficiale di Israele, è parlato da 7 milioni di persone e ha una letteratura tra le più importanti del mondo.
Abbiamo dedicato un articolo al “miracolo ebraico” che approfondisce la questione. Lo trovi qui: https://patrimonilinguistici.it/ebraico-storia-rinascita/
Il finlandese
Salvo alcuni testi religiosi e documenti amministrativi, duecento anni fa il finlandese era privo di letteratura. Anzi: è possibile che nel 1816 ci fossero più testi scritti in milanese che in finlandese!
D’altronde, la lingua ufficiale e della cultura era lo svedese, che sostituiva il finlandese in tutte le occasioni importanti.
Eppure, nel corso di pochi decenni la situazione cambiò molto velocemente: nel 1835 venne pubblicato il Kalevala, la prima vera opera letteraria finlandese; e già nel 1863 si dispose che il finlandese venisse adottato come lingua co-ufficiale accanto allo svedese.
Nel corso di pochi anni la letteratura finlandese ebbe un aumento esponenziale, e la lingua venne dotata di un lessico moderno e adatto per ogni aspetto della vita.
Poco più di un secolo dopo la pubblicazione del Kalevala, nel 1939, venne assegnato il premio Nobel per la letteratura a uno scrittore finlandese, Frans Eemil Sillanpää.
Il ceco
Nonostante un periodo di relativo splendore tra la fine del Medioevo e il Rinascimento, questa lingua slava subì un forte tracollo in seguito alla Guerra dei Trent’Anni (1618-1648).
Nei secoli successivi, il ceco fu scritto molto poco, e divenne semplicemente una delle tante lingue parlate all’interno dell’impero degli Asburgo; i cechi più colti, inoltre, preferivano scrivere in tedesco.
Anche in questo caso, tuttavia, a partire dal XIX secolo il ceco riuscì a ritrovare slancio e vitalità culturale, e oggi è una lingua ufficiale (anche dell’Unione Europea) ed è parlato da più di 12 milioni di persone.
Il greco moderno
Dopo gli splendori dell’età antica e del periodo bizantino, l’occupazione turca diede un duro colpo alla cultura in lingua greca.
Non solo: in seguito all’indipendenza della Grecia, la cultura ellenica fu fortemente segnata da una disputa linguistica molto aspra. Difatti, molti letterati e politici preferivano usare come lingua ufficiale una forma aggiornata del greco antico, chiamata Kathareùousa (“purificata”): essi ritenevano il greco effettivamente parlato troppo storpiato e corrotto (ricco di prestiti turchi, italiani, veneti…).
Nonostante ciò, i sostenitori della lingua “demotica” riuscirono a spuntarla: dal 1976 il greco demotico è lingua ufficiale della Grecia e di Cipro.
Il ladino
Fino alla fine del Settecento, questa lingua era praticamente sconosciuta.
Parlata da una popolazione montanara stretta tra cinque vallate del Tirolo, profondamente influenzata dal tedesco, priva di letteratura, il suo destino pareva essere quello degli altri “dialetti” italiani.
Ma nonostante queste grame premesse, il ladino è oggi una delle poche lingue minoritarie riconosciute e tutelate dallo Stato italiano: è co-ufficiale assieme a italiano e tedesco, e come essi viene insegnato a scuola.
L’unico settimanale integralmente scritto in una lingua regionale italiana è proprio il ladino “La Usc di Ladins” (cioè “la voce dei ladini”).
Il catalano
Utilizzato come lingua ufficiale ai tempi del Regno d’Aragona, cominciò a decadere a partire dal 1500.
Nel 1716 i re di Spagna promulgarono leggi per escluderlo da qualsiasi uso ufficiale, e relegandolo a un utilizzo quasi solo orale.
Tuttavia, a cavallo tra ‘800 e ‘900, un gruppo di intellettuali e letterati ridiede dignità alla lingua, codificandola, dotandola di una grafia standard e dando vita a un’intensa stagione letteraria e giornalistica. Il regime di Francisco Franco però tornò a vietare e perseguitare l’uso scritto della lingua, portando a un drastico calo di parlanti in alcune regioni (come la regione di Valencia).
Con la caduta del regime, il catalano (anche grazie a politiche più favorevoli) tornò a crescere. Oggi, con i suoi 10 milioni di parlanti, è la lingua minoritaria più parlata nella UE. In catalano vengono stampati e tradotti libri, pubblicati giornali, creati siti, doppiati film e serie televisive. Per tanti attivisti di lingue minoritarie in Europa, il caso catalano costituisce un modello da seguire e imitare di cui abbiamo parlato in questo articolo.
In sintesi
La storia dell’umanità ci mostra che tante lingue in situazioni simili alle nostre hanno saputo risollevarsi e dare molti frutti.
Certo, molto dipende dalle circostanze storiche: ma molto di più dipende dalla buona volontà di chi parla e ama queste lingue.
Solo impegnandoci ogni giorno nell’usarle, parlarle, viverle in ogni occasione possibile, possiamo pensare di riuscire a salvare il nostro patrimonio linguistico.
Non lasciamo che le condizioni sociolinguistiche del presente ci impediscano di cambiare il futuro.
La responsabilità è nelle nostre mani: anzi, nelle nostre lingue.