Mi è arrivato in chat questo articolo con richiesta annessa di parere.
Vi consiglio di leggerlo. È un discorso lineare, che però parte da alcuni assunti errati e a mio parere merita una risposta.
Provo a fare una sintesi. L’autore sostiene che sia impossibile fare discorsi progressisti in “dialetto” poiché, a causa dell’origine popolana di esso, molte parole sono insulti: sarebbe dunque paradossale dire (scusa la crudezza) che “i negri sono uguali a noi” o che “i froci devono potersi sposare”.
Ecco perché il dialetto sarebbe la “neolingua fascista”.
Tuttavia, quest’analisi non tiene conto di una cosa: le lingue cambiano.
Ad esempio, la parola omosessuale in italiano è attestata dal 1908 e la stessa parola, nelle altre lingue, è nata nel 1870 circa. Prima i gay erano detti sodomiti. Prova a fare un discorso per sostenere il movimento LGBT che “si batte per il diritto dei sodomiti a sposarsi e formare famiglie”. Non credo che la comunità gay ne sarebbe entusiasta, anzi. Eppure fino a non molto tempo fa era l’unico modo per esprimere il concetto!
Tuttavia, negli anni la sensibilità si è affinata e nei discorsi sono iniziati a comparire dei termini non marcati negativamente per descrivere l’omosessualità. Questo per quale motivo? Semplice, perché l’uso imponeva che comparissero.
Come possiamo pretendere, dunque, che le lingue regionali, che hanno avuto un uso dotto minore rispetto all’italiano, adottassero un termine “politicamente corretto” ancora prima che lo adottasse l’italiano?
Molto semplicemente, se si dovesse fare un discorso progressista in “dialetto”, capiterà quello che è successo con l’italiano. Qualcuno capì che non era giusto chiamare gli omosessuali “sodomiti”, e coniò la parola “omosessuale”. Altri iniziarono ad usarla e infine diventò parte del vocabolario comune della lingua italiana.
È la condanna del dialetto a lingua di incultura che legittima l’uso denunciato dall’articolo: chi parla in “dialetto”, data la visione sociale di esso come “lingua bassa”, si sentirà autorizzato ad esprimersi volgarmente dando la colpa non alla sua inciviltà ma alla lingua che usa. In italiano non farebbe la stessa cosa, dato che usare le parole scorrette dimostra incultura e volgarità.
Come già dicevo in un precedente articolo, la soluzione in questo caso non è condannare senza appello il “dialetto” ma fare ciò che è più giusto: essere i “giustificatori” della lingua, usando termini più inclusivi in maniera da rendere i termini incivili sempre più odiosi anche a chi parla comunemente in una lingua regionale.
Insomma, usare il “dialetto” in modo colto e gentile e non per manifestare la propria ignoranza.
Possibilmente, però, senza farsi prendere dalla foga del politically correct a tutti i costi, come nel caso della fobia per la parola lombarda “negher” (che significa semplicemente nero). Questo è un caso da manuale: nessun lombardofono, nel 1920, si sarebbe immaginato lontanamente di offendere una persona di colore dicendole che l’è un negher! Chi oggi usa questa parola per insultare le persone di colore, dimostra quanto meno di non conoscere la lingua lombarda.
Quindi, sostenere che sia impossibile fare i progressisti col dialetto vuol dire negare a priori le possibilità di evoluzione linguistica alle lingue regionali, condannandole a diventare le “lingue dei maleducati e degli ignoranti”.
Ma non solo: ciò significa anche negare le leggi linguistiche che hanno tirato fuori l’italiano dal 1800 in cui i gay erano detti sodomiti, e che oggi stanno portando ad un’evoluzione di alcuni termini in senso egualitario tra sessi.
Cosa che, tra l’altro, da lombardofono facevo già da piccolo e spontaneamente, dato che da noi si dice la sindega e l’assessora da molto prima che il movimento femminista evidenziasse il problema…
Tornando a noi, la stessa evoluzione che ha avuto l’italiano toccherà anche le lingue regionali. Per logica, se un gruppo di attivisti gay parla in “dialetto”, in pochissimo tempo si formeranno degli eufemismi e dei termini neutri per descrivere la propria condizione. Quindi il problema si risolverebbe sostanzialmente da solo.
Il miglior modo per trasformare le lingue regionali in un refugium peccatorum dell’estremismo tradizionalista più becero è invece lasciarle in esclusiva ai retrogradi e agli ignoranti.
Certo, sono sicuro che qualcuno dirà che queste lingue sono “roba vecchia”. Eppure, oltre ad avere un valore inestimabile di per sé, sono anche lingue vive, e quindi vanno lasciate evolvere.
Dobbiamo accettare che nasceranno nuove parole in “dialetto”, nuovi modi di dire, nuove frasi idiomatiche. In fondo, del fatto che certe parole comuni non saranno attestate nel vocabolario storico dell’Ottocento dovrebbe interessarci veramente poco!
Soprattutto, dovrà ritornare ad esistere il registro medio-alto della lingua regionale, quello dei parlanti colti. In sostanza, un registro linguistico di prestigio elevato come quello delle aristocrazie che parlavano le lingue regionali fino al XIX secolo, e che fungeva da guida per il progresso e l’evoluzione nella lingua.
Per farlo basta la buona volontà e una infarinatura di language planning, non serve essere alla corte di Radetzky 🙂