Cosa è un dialetto (in parole semplici)
- In senso linguistico, un dialetto è una varietà di una lingua.
- In senso genealogico, un dialetto è una lingua che si è evoluta da un’altra lingua.
- In senso sociolinguistico, un dialetto è una lingua subordinata ad un’altra lingua.
Questo in estrema sintesi.
Ora, se sei interessato a sapere nel dettaglio cosa dice la linguistica a proposito della questione, ti invito a leggere il seguito dell’articolo.
Qual è la differenza tra lingua e dialetto?
Sono abbastanza sicuro che da qualche parte qualcuno ti ha già propinato questa frase:
Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina.
Si tratta di una citazione che viene attribuita ad almeno 3 linguisti diversi e che trovi spesso nei manuali di dialettologia. Mi sono sempre chiesto perché sia così popolare, dato che non aiuta minimamente a comprendere la differenza tra lingua e dialetto.
Ti consiglio di dimenticarla e proseguire con la lettura dell’articolo.
Dialetto: definizione a 3 livelli
Perché si dice che non è difficile definire cosa è un dialetto? Semplice: perché la parola “dialetto” per la scienza ha 3 definizioni completamente differenti.
Andiamo a vedere nel dettaglio di che si tratta.
1 – Dialetto in senso linguistico
La definizione linguistica di “dialetto” è la più gettonata dalla linguistica internazionale. Si tratta anche della definizione più semplice.
In sostanza, un dialetto è semplicemente la varietà di una lingua.
Ok, ma come si fa a capire se un idioma è una lingua o un dialetto?
Per scoprirlo basta prendere due parlanti di due idiomi differenti e indagare su 3 parametri.
- Comprensione reciproca. Se c’è mutua intelligibilità, ossia se i due parlanti si capiscono tra loro quando parlano, siamo sicuramente di fronte a due dialetti della medesima lingua;
- Lessico di base in comune. Se più dell’80% delle parole di uso comune impiegate dai due parlanti sono le stesse (anche se pronunciate in modo differente), i due idiomi sono dialetti della stessa lingua;
- Morfologia e sintassi omogenee. Se i due parlanti utilizzano le stesse regole grammaticali per esprimersi, parlano due dialetti della stessa lingua.
Per rendere più chiara questo significato del termine “dialetto” ho preparato un’immagine esplicativa.
Come puoi vedere nell’immagine, la lingua è rappresentata da un colore. Questo colore è l’azzurro. All’interno di ciò che noi definiamo come azzurro sono possibili diverse gradazioni. Alcune sono più chiare, altre più scure. Alcune sono cangianti, altre spente. Altre ancora si avvicinano al blu, altre al grigio, altre al verde. Ma sono comunque delle gradazioni di azzurro. Allo stesso modo i dialetti si possono definire come gradazioni diverse della medesima lingua.
2 – Dialetto in senso genealogico
Secondo questa definizione, un dialetto è una varietà linguistica originata da una lingua antecedente. Il dialetto, quindi, è in un certo senso il “figlio” di una lingua “madre” dalla quale deriva.
Per esempio, l’italiano, il francese e lo spagnolo sono dialetti latini, in quanto derivano tutti dalla lingua latina. A sua volta il latino è un dialetto indoeuropeo, perché si è sviluppato a partire dalla lingua indoeuropea accanto al proto-celtico, al proto-germanico, al greco antico, al sanscrito e all’hittita.
Schematizzando, il dialetto secondo la definizione genealogica appare in questo modo:
3 – Dialetto in senso sociolinguistico
La sociolinguistica è la scienza che studia gli aspetti sociali delle lingue. Ha una definizione di dialetto tutta sua… e anche piuttosto complicata. Si tratta anche della definizione più utilizzata dall’accademia italiana. Quindi, quando senti un linguista italiano parlare di “dialetti”, sappi che si riferisce a questo significato.
Anche in questo caso i sociolinguisti hanno identificato alcuni parametri per identificare la differenza tra lingua e dialetto:
- Diffusione geografica limitata. Mentre la lingua viene impiegata in un territorio molto esteso, il dialetto si parla in un’area geografica di piccole dimensioni.
- Assenza di uno standard. Il dialetto non ha elaborato una forma “corretta” riconosciuta da tutti i parlanti. Si trova quindi in una situazione di forte frammentazione locale. In sostanza, ogni comunità lo parla in modo diverso.
- Scarso prestigio. Il dialetto è percepito dalla popolazione che lo parla come un idioma rozzo. Viene per lo più parlato dalle persone povere e poco istruite.
- Uso informale. Un dialetto viene impiegato in situazioni sociali informali, ad esempio in famiglia o tra amici. Non si usa presso gli uffici pubblici, a scuola oppure per fare conferenze o colloqui lavorativi.
- Corpus letterario limitato. Un dialetto viene prevalentemente parlato, e non scritto. La letteratura è in genere assente o scarsa. Quando presente, è di poco valore.
- Presenza di una lingua-tetto. Il dialetto, nelle comunità dove viene parlato, è influenzato da una lingua tetto, ossia da un idioma prestigioso che viene impiegato nelle situazioni formali e nella letteratura. Dalla lingua tetto il dialetto riceve prestiti (parole e costrutti grammaticali).
- Mancanza di lessico tecnico-scientifico. Il dialetto ha un vocabolario limitato alle parole della vita quotidiana, e quindi non ha i termini adatti per parlare di scienza, tecnologia, filosofia e altre branche del sapere.
Date queste 3 definizioni, avrai intuito che è praticamente impossibile stabilire cosa è un dialetto in senso assoluto. Manca una definizione di dialetto univoca. In poche parole, il termine “dialetto” ha 3 definizioni completamente differenti!
Per evitare polemiche e dibattiti sull’argomento, l’accademia internazionale sta cercando una soluzione semplice al problema.
Definizione di dialetto secondo l’accademia internazionale
Ormai il mondo accademico sta accantonando la definizione di dialetto di tipo sociolinguistico, troppo complicata e arbitraria. Si sta orientando sempre di più verso la definizione più semplice, ossia quella linguistica.
Quando un dialetto “diventa” lingua?
Se un idioma ha regole grammaticali proprie, un vocabolario di uso quotidiano tipico e non è facilmente comprensibile per chi non lo conosce, significa che è una lingua. Altrimenti è un dialetto di una lingua.
L’unica eccezione alla regola riguarda alcuni casi particolari in cui due varietà linguistiche tipologicamente simili sono parlate da due comunità separate. In Europa possiamo citare tre esempi:
- Serbo e croato sono quasi identici, tanto da poter essere considerati due dialetti della stessa lingua. Tuttavia, per motivi politici e identitari, sono considerati in tutto e per tutto come due lingue separate.[1]
- Italiano e corso sono sostanzialmente la stessa lingua. Un italiano può comprendere il corso senza fatica, e lo stesso vale per un corso nei confronti della lingua italiana. La sintassi e il lessico delle due lingue sono quasi identici. Tuttavia, i Corsi sono usciti dalla sfera di influenza italiana dal XVIII secolo, e quindi non si considerano italiani.[2]
- L’olandese è, dal punto di vista tipologico, una varietà di basso-tedesco (plattdeutsch), una lingua regionale parlata nel nord della Germania. Ciò nonostante, gli Olandesi hanno un’identità etnica ben differente da quella tedesca.[3]
Quindi, un dialetto dal punto di vista tipologico in certi casi può essere considerato una lingua. Non accade mai il contrario. Quindi, un idioma viene sempre considerato una lingua a sé in quanto dotato di una struttura grammaticale e di un lessico peculiari.
Definizione di dialetto in Italia
Prima di addentrarci in questo argomento spinoso devo confessarti che in precedenza ti ho detto una cosa non del tutto esatta.
Ho detto che i linguisti italiani usano la parola “dialetto” in senso sociolinguistico, ma tecnicamente non è propriamente così. Ho preferito semplificare per non confonderti le idee. Infatti, la situazione è un po’ più complicata. L’accademia italiana ha un modo tutto suo per definire la situazione linguistica in Italia.
In questa seconda parte del testo te la riassumerò nel modo più semplice possibile.
Tutto parte da Sua Maestà…
L’italiano standard
Si tratta dell’italiano “corretto e perfetto” delle grammatiche e dei corsi di dizione. Un italiano ideale, dunque, che funge da riferimento per tutti coloro che vogliono esprimersi correttamente in lingua italiana.
Nella realtà quotidiana l’italiano standard non viene quasi mai parlato. Gli italiani, quando parlano la loro lingua, utilizzano altre varietà.
Gli italiani regionali: varietà locali di italiano
In Italia si parla italiano, ma in modo differente a seconda della regione in cui ci si trova. A Milano, ad esempio, si parla un italiano diverso rispetto a quello di Napoli. Non cambia solo l’accento. Cambiano anche alcune parole e alcune regole grammaticali, ma non tanto da impedire la piena comprensione da parte di chiunque conosca la lingua italiana.
Dal punto di vista linguistico queste varietà sono in tutto e per tutto dialetti dell’italiano. Sono dialetti dell’italiano anche dal punto di vista genealogico, dato che derivano tutti dall’italiano standard appreso a scuola dagli italiani tra il XIX e il XX secolo[4].
I linguisti italiani, tuttavia, non si riferiscono mai alle varietà locali di italiano chiamandole “dialetti dell’italiano”. Le definiscono “italiani regionali” proprio per non fare confusione con gli idiomi della prossima categoria.
Dialetti italiani: gli idiomi delle regioni
Qui arriva il bello. Infatti, nel calderone dei “dialetti italiani” troviamo idiomi di due tipi.
Varietà di italiano che non derivano dall’italiano standard
Prima abbiamo parlato di italiani regionali, ossia delle varietà locali di italiano che si sono originate dalla diffusione della lingua tra il XIX e il XX secolo.
Esistono però altri dialetti dell’italiano che erano già parlati da secoli. Si tratta dei dialetti parlati in Italia centrale. Toscano, romanesco, umbro-marchigiano sono molto simili all’italiano, al punto che un italofono li intende quasi alla perfezione. Il lessico di base e i costrutti grammaticali, infatti, sono sostanzialmente gli stessi.
Questi idiomi sono dialetti dell’italiano dal punto di vista linguistico. Dal punto di vista genealogico, invece, non sono “figli” dell’italiano, ma fratelli nati dalla stessa lingua madre, il latino.
Idiomi autonomi subordinati all’italiano
Gli idiomi delle regioni italiane settentrionali e meridionali sono differenti dall’italiano dal punto di vista linguistico. Secondo gli standard della linguistica internazionale si tratta dunque di lingue autonome.[5]
Tra di esse troviamo il lombardo, il ligure, il piemontese, il veneto, l’emiliano-romagnolo, il siciliano con calabrese e salentino, e tutti i dialetti simili al napoletano parlati dall’Abruzzo alla Lucania.
Dal punto di vista genealogico queste varietà sono figlie del latino e quindi sorelle dell’italiano.
Dal punto di vista linguistico non possiedono nessun carattere comune che si possa ricondurre a un modello italiano unitario.[6] In parole povere, queste parlate sono talmente diverse tra loro che non assomigliano all’italiano più di quanto possano assomigliare ad altre lingue derivate dal latino come il francese, lo spagnolo o il portoghese.
Questi idiomi non sono dialetti in senso linguistico, e nemmeno in senso genealogico. Allora perché vengono definiti “dialetti” dall’accademia italiana?
La risposta è semplice: sono dialetti nel senso sociolinguistico. Quindi, sono accomunati da una diffusione geografica limitata, scarso prestigio, assenza di uno standard, uso esclusivamente informale, corpus letterario limitato e mancanza di lessico tecnico-scientifico.
Nella pratica però le cose non sono così lineari:
- Il piemontese possiede uno standard e un lessico tecnico-scientifico.[7]
- Il napoletano vanta una fiorente letteratura che parte dal Medioevo fino ai giorni nostri.[8]
- Il veneto ha da sempre un prestigio sociale piuttosto alto.
- In accordo all’UNESCO Atlas of languages in danger, il lombardo viene parlato da svariati milioni di persone in due nazioni (Italia e Svizzera) senza contare le comunità immigrate all’estero.
E si potrebbe andare avanti ancora a lungo… ma per molti linguisti italiani tutto questo non è particolarmente importante. Infatti, questi idiomi sarebbero incontrovertibilmente dei dialetti perché i parlanti hanno accettato l’italiano come lingua-tetto.
Questo dato è difficilmente criticabile perché, in effetti, è vero. Peccato che la prossima categoria torni a instillarci dei dubbi.
Le lingue di minoranza
Sono gli idiomi parlati dalle minoranze linguistiche citate nella legge di tutela 482/99.
Nella legge 482/99 si riconoscono
la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.
Questi idiomi vengono definiti “lingue” dallo Stato e anche dall’accademia italiana. Tuttavia, se si va a ricercare il perché di questa scelta, non è ben chiaro.
Infatti,
- Alcune lingue di minoranza non hanno uno standard. Il francoprovenzale, ad esempio, ne è privo.[9] Lo standard del sardo, chiamato Limba Sarda Comuna, è nato in epoca molto recente (addirittura dopo l’entrata in vigore della legge di tutela).
- Rispetto alla maggior parte delle “letterature dialettali”, la letteratura nelle lingue di minoranza è piuttosto esigua. Il ladino, ad esempio, ha un corpus letterario limitato che è cresciuto esponenzialmente solo nel corso degli ultimi decenni.[10]
- Molte lingue hanno una distribuzione geografica molto limitata. Spesso gli aerali sono puntiformi (paesi o addirittura frazioni). E’ il caso dell’albanese d’Italia, meglio noto come arbëreshë, che viene parlato a macchia di leopardo in vari paesi del Sud Italia. Lo stesso per quanto riguarda il grecanico, che sopravvive arroccato in pochi paesi dell’Aspromonte e del Salento.
- Tutte le lingue della legge 482/99, escludendo tedesco, francese e sloveno, hanno un prestigio sociale molto basso, spesso ancor più basso del “dialetto” parlato nelle aree limitrofe. L’occitano, ad esempio, si è arroccato nelle valli alpine dove è tuttora insidiato dal piemontese, considerato più prestigioso poiché idioma di città.[11] Lo stesso fenomeno è accaduto in Friuli. I centri urbani della regione, infatti, sono principalmente venetofoni, mentre il friulano è sopravvissuto in montagna e nelle campagne.[12]
Ma non è finita qui.
Ricorderai che l’elemento principale di distinzione utilizzato dalla maggior parte linguisti italiani per definire un idioma un dialetto italiano è la presenza dell’italiano come lingua-tetto della comunità.
Ebbene, quasi tutte le lingue di minoranza hanno l’italiano come lingua tetto. Ce l’ha il friulano come il sardo. L’arbëreshë come il grecanico. Il croato del Molise come l’occitano. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Dunque, perché sono state promosse a lingue di minoranza?
Beh, è vero che alcune non sono lingue romanze, cioè non sono derivate dal latino. In un certo senso, grecanico, arbereshe e croato non sono “fratelli” dell’italiano e degli altri dialetti, ma piuttosto dei “cugini”. Troppo distanti, dunque, per poterli considerare dialetti italiani.
Però anche ladino, sardo e friulano sono idiomi derivati dal latino, eppure vengono considerati lingue, non dialetti… perché?
Purtroppo una risposta non ce l’ho… è uno dei più grandi misteri della linguistica italiana!
Ricapitolando
In questo articolo abbiamo visto che la linguistica dà 3 definizioni di dialetto: una linguistica, una genealogica e una sociolinguistica.
Abbiamo visto che il mondo scientifico internazionale si sta orientando verso la definizione linguistica di dialetto, che è anche quella più semplice e che si presta meno alle ambiguità.
Abbiamo visto che l’accademia italiana, per definire la situazione linguistica dell’Italia, utilizza un sistema complesso e non sempre coerente per definire cosa è dialetto e cosa è lingua.
Per saperne di più
Ecco la lista di libri che ti consiglio di leggere per approfondire la questione.
- Carla Marcato, Dialetto, dialetti e italiano, Il Mulino, Bologna, 2002.
- Alberto A. Sobrero e Annarita Miglietta, Introduzione alla linguistica italiana, Laterza, Roma-Bari, 2006.
- Giorgio Graffi e Sergio Scalise, Le lingue e il linguaggio, Il Mulino, Bologna, 2002.
- Anna Bogaro, Letterature nascoste: storia della scrittura e degli autori in lingua minoritaria in Italia, Carocci, Roma, 2011.
- Michele Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Laterza, Roma-Bari, 2009.
- Fiorenzo Toso, Le minoranze linguistiche in Italia, Il Mulino, Bologna, 2008.
- Franco Fanciullo, Prima lezione di dialettologia, Laterza, Roma-Bari, 2015
Ora sai tutto quello che devi sapere riguardo la definizione di dialetto, quindi fai buon uso di ciò che hai imparato!
Riferimenti bibliografici
[1] “Emblematico è il caso […] del serbocroato, considerato – almeno dal 1830 al 1990 – una sola lingua ma con due standard alfabetici, latino e cirillico […] Le differenze fra le tre lingue standard attuali, che pure esistono, sono assai esigue e non pregiudicano per nulla la comunicazione (per il concetto di “voglio fare” il croato preferisce _hoću raditi_ e il serbo _hoću da radim_, letteralmente “voglio che faccio” – come dire _nacqui_ rispetto a _sono nato_); oppure si rileva qualche differenza lessicale (in maggioranza nei prestiti da altre lingue o nei ter mini astratti e scientifici, o per l’accoglimento di dialettalismi diversi), ma queste differenze potrebbero benissimo passare come doppioni o scelte stilistiche” (V. Dell’Aquila/G. Iannàccaro, La pianificazione linguistica, Roma: Carocci, 2004, citt. da p. 68 e da p. 102, con corsivi nell’originale).
[2] “Il corso è una varietà di italiano” (Fanciullo F., Prima lezione di dialettologia, Laterza, Roma-Bari, 2015).
[3] “Alcune considerazioni mi sembrano ancora doverose sulle sorti di quel basso tedesco […], in quanto il suo destino è definitivamente segnato dall’imporsi dell’alto tedesco luterano, forte del suo prestigio cultural-religioso, e quanto il fattore religione sia importante risulta evidente dal fatto che la varietà dialettale basso-francone parlata in parte dei Paesi Bassi anche per motivi simili (ma al tempo stesso opposti, sono calvinisti) acquista definitivamente la dignità di lingua nazionale e letteraria.” (Sandra Bosco Coletsos, Storia della lingua tedesca, Torino Rosenberg & Sellier, pp. 195-196)
[4] “[…] proprio la spinta all’unificazione linguistica passata attraverso la scuola, portò al radicamento del repertorio linguistico delle varietà di italiano regionale, che furono poi trasmesse di generazione in generazione.” (Alberto A. Sobrero e Annarita Miglietta, Introduzione alla linguistica italiana, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 80).
[5] “In secondo luogo, è dubbio lo statuto dei vari dialetti italiani (piemontese, lombardo, veneto, napoletano, pugliese, siciliano ecc.) che dal mero punto di vista della storia e della distanza linguistica avrebbero le carte in regola per essere considerati sistemi linguistici a sé stanti, autonomi rispetto all’italiano e non sue varietà, anche se di solito non sono computati separatamente.” (G. Berruto, M. Cerutti, La linguistica. Un corso introduttivo, Torino, UTET, 2011)
[6] “La mutua comprensione, anche soltanto parziale, tra parlanti del Nord che usino dialetto popolare, un patois, e i dialettofoni del Sud che si esprimano nella parlata municipale […] risulta assolutamente impossibile. Altrettanto impossibile riuscirebbe ad un toscano d’intendere il linguaggio del nostro Settentrione, o del Meridione. […] Questa constatazione inequivocabile sta a dimostrare, se non altro, come sia quasi impossibile, se operiamo con dialetti schietti e popolari, ricostruire o identificare uno “schema comune unitario”, un “diasistema” che si possa senz’altro definire tipico dell’italiano. ” (Giovan Battista Pellegrini, Classificazione delle Parlate Ladine, in AA. VV. Il ladino o “retoromanzo”. Sillogie di contributi specialistici, Alessandria ed. dell’Orso, 2000).
[7] “The Ausbau of a variety towards a higher sociolinguistic status has not to do with structural distance vs. the existing high prestige language (Abstand), but with its capability to get access to domains typical of the competing high prestige language: in particular, the written medium, but much more relevantly prose than poetry, and within prose, technical-scientific and political-institutional domains. Turin Piedmontese made some steps in this direction in the period from 18th to early 20th century, as witnessed by the following typology of written documents[: grammatiche con istanze di prosa argomentativa, dizionari, traduzioni della Bibbia, letteratura e,] towards the end of the [19th] century, some weekly popular journals: the most important one, ’L Birichin, was published from 1886 to 1926 reaching a maximum circulation of 12.000 copies (Clivio 2002: 359). This points to some extent of alphabetization in Piedmontese in the period. […I]n the 20th century, the literary production consists essentially of lyric poetry, and the prose is mainly the work of language promoters, including essays on literature and some on linguistic matters” (D. Ricca, Piedmontese: a sketch. Part 1 : Basic historical and geographic information. Phonology and related issues. Verb morphology. Ciclo di lezioni tenute alla Summer School in Languages and Linguistics of the Mediterranean, Cagliari, prima lezione, 20 giugno 2016. Il lavoro di Clivio citato è Clivio, Gianrenzo P. (2002), Profilo di storia della letteratura in piemontese. Torino: Centro Studi Piemontesi).
Nella stessa lezione, si fa riferimento a un “(moderate) grade of Ausbau” per il piemontese di koiné.
[8]“Tale situazione [di disinteresse verso i dialetti campani] risulta ancora più sorprendente quando si considera che il napoletano presenta una ricca e lunga tradizione letteraria risalente al tardo Duecento (con i Placiti cassinesi si risale addirittura al decimo secolo) […I]l dialetto, o meglio una varietà letteraria di esso, gode oggigiorno di un prestigio eccezionale non solo in Campania ma in tutta la penisola, prestigio dovuto in parte al successo delle celebri tradizioni letterarie locali quali _la canzone napoletana_ e le opere popolareggianti di drammaturghi e di poeti quali Eduardo Scarpetta (1853–1925), Salvatore Di Giacomo (1860–1934), Ferdinando Russo (1866–1927) e Eduardo De Filippo (1900–1984).” A. Ledgeway, Grammatica storica del napoletano, Tübingen: Niemeyer, 2009, citt. da p. 1 e da p. 12 (qui con enfasi nell’originale). Non si dimentichi di aggiungere, in questo merito, il successo di pubblico e di critica del film e della serie tv Gomorra. Per la ricchezza della letteratura napoletana si vedano anche, nello stesso testo di Ledgeway, le fonti testuali adoperate, i cui estremi occupano le pp. 18-28(!).
[9] “Attratti da sempre nell’area culturale francese, i dialetti franco-provenzali al di qua e al di là delle Alpi non hanno mai espresso una koinè letteraria, né usi pubblici o ufficiali di qualche prestigio: questo fatto aiuta a spiegare la particolare frammentazione delle parlate e la scarsa fortuna nel tentativo, che pure aveva trovato un certo seguito in ambienti militanti, soprattutto a partire dagli anni Settanta e Ottanta, di elaborare una varietà sopradialettale chiamata col nome convenzionale di harpeitan (“arpitano”), sulla quale appoggiare rivendicazioni culturali e politiche di vario genere. Tale elaborazione non ha mai trovato applicazioni pratiche, e la vitalità dei “patois” (come vengono definiti tradizionalmente) rimane di fatto affidata all’uso orale.” (Fiorenzo Toso, Le minoranze linguistiche in Italia, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 117-118)
[10] Per approfondire: Walter Belardi, Breve storia della lingua e della letteratura ladina, Istitut Ladin Micurà de Ru, San Martin de Tor, 1993. Inoltre: Anna Bogaro, Letterature nascoste: storia della scrittura e degli autori in lingua minoritaria in Italia, Carocci, Roma, 2011.
[11] “I dialetti provenzali parlati in Italia […] coprono alcune aree montane delle province di Torino e Cuneo […]. Questa tipologia linguistica fu probabilmente più estesa in passato verso la pianura, ma è stata soppiantata, spesso da secoli, dall’avanzata del piemontese. […] Vi era inoltre, da parte degli stessi locutori, una storica disistima dei dialetti locali sia rispetto all’italiano e al francese, sia rispetto al piemontese, da sempre percepito come variante di prestigio.” (Fiorenzo Toso, Le minoranze linguistiche in Italia, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 124-125)
[12] “La popolazione che parla dialetti di ceppo friulano […] è concentrata in gran parte delle attuali province di Udine, Pordenone e Gorizia e in alcune frange di quella di Venezia […]; va però precisato che in gran parte del Goriziano e nella fascia orientale della provincia di Udine i dialetti friulani convivono storicamente con lo sloveno, e che i centri urbani della regione sono tradizionalmente venetofoni. ” (Fiorenzo Toso, Le minoranze linguistiche in Italia, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 98)