Nei giorni scorsi alcuni dati ISTAT hanno certificato quello che è noto da tempo: i “dialetti” sono a rischio estinzione.
Secondo le statistiche, ormai solo il 14% dei cittadini italiani usa in modo esclusivo le lingue regionali in casa (dunque non mischiandole con l’italiano). Questo a dispetto di “indagini” un po’ pressapochiste che, a metà novembre, proclamavano il ‘boom del dialetto’ tra i giovani. Anzi, sono proprio i giovani coloro che usano di più l’italiano.
La verità è un’altra: le lingue regionali e minoritarie d’Italia stanno scomparendo, nell’indifferenza più o meno esplicita di buona parte del mondo politico e culturale. Anzi, non è un mistero che parte dell’élite italiana continua a vedere nei “dialetti” un relitto del passato da abbandonare al più presto.
Ora, di fronte a questi dati si può reagire in due modi diversi: certo, ci si può rassegnare; si può dire che è un destino inevitabile; che tanto i ‘dialetti’ non sono fatti per la modernità; che, in nome di una specie di selezione naturale, è normale che certi linguaggi spariscano; che è inutile rivangare un tempo che ormai non c’è più.
È una via facile: la si sente ripetere in strada, in televisione, nelle interviste, e anche da parte di persone (poeti, attori, cantanti…) che teoricamente “lavorano” con le lingue locali. E quante volte abbiamo sentito spiegare da sedicenti “esperti di dialetto” come essi siano gli ultimi custodi di una lingua quasi perduta.
Certamente questa è la strada più comoda, che tanti già percorrono. Ma non è quella che interessa a noi.
Sinceramente, noi riteniamo che la scomparsa di una lingua non sia “un fatto inevitabile”, né “un accidente della storia”.
Crediamo invece che sia una perdita culturale e storica enorme, che porta sé traumi e che impoverisce il nostro Paese: e che soprattutto sia un vero e proprio sopruso nei confronti dei tanti italiani che (grazie a Dio) ancora parlano ogni giorno questi idiomi.
Riteniamo inoltre che non sia più accettabile l’ignavia con cui il mondo della cultura e le istituzioni prendono atto di questa erosione linguistica, che non avviene nelle savane africane o nella giungla del Borneo, ma nelle nostre città e campagne.
A noi interessa fino a un certo punto disquisire del perché e del percome una data parlata non goda dello stesso prestigio dell’italiano: a noi preme cambiare questi dati.
Non è nostra intenzione difendere i “dialetti” perché lingue del cuore e del bel tempo che fu: a noi interessa tenere vive delle lingue che, come tali, hanno diritto a essere considerate “normali“, e sullo stesso piano di tutte le altre, e in tutti i contesti che offre la società globale del XXI secolo.
In questo, abbiamo dei precedenti in Europa che ci confortano e che ci indicano la strada: casi felici di lingue date ormai per spacciate ma che, con una politica linguistica lungimirante, hanno trovato (e sfruttato) una seconda occasione.
Non vogliamo nemmeno polemizzare con chi la pensa diversamente come noi, o rinfacciare il disfattismo di chi non ha passato la propria lingua ai figli o sostiene che sia troppo tardi. Hanno fatto una scelta: noi contrapponiamo loro la nostra, che è più valida e positiva.
Continuiamo quindi a essere convinti di alcuni concetti fondamentali:
- bisogna smettere di considerare i “dialetti” delle specie di registri bassi dell’italiano;
- bisogna smettere di considerare “speciale” la situazione linguistica italiana, come se solo in Italia ci fossero altre lingue accanto a quella nazionale;
- bisogna smettere di mischiare, in un mix letale, la tutela delle lingue locali e vaghissime rivendicazioni politiche.
E al contempo:
- insegnare che il multilinguismo è un valore aggiunto, e una potenziale fonte di ricchezza per il nostro paese e per i nostri figli;
- insegnare che non esistono lingue migliori o peggiori delle altre;
- insegnare che la politica e la cultura possono dare un grande contributo per creare una società più rispettosa della propria storia e dell’identità dei propri cittadini.
Ci rendiamo conto che tutto ciò costa molto: c’è in gioco un profondo cambiamento culturale, che mette in discussione molti aspetti dell’identità italiana così come si è formata dal XVI secolo in poi. Ma, per salvaguardare il nostro straordinario patrimonio linguistico, sono passi necessari.
Di fronte a certe statistiche, tristi ma prevedibili, si può insomma reagire in due modi: rassegnarsi e viverle come una condanna; oppure impegnarsi concretamente perché possano cambiare nei prossimi anni. Il Comitato per la Salvaguardia dei Patrimoni Linguistici ha scelto il secondo. Per riuscire nel nostro obbiettivo, però, abbiamo bisogno di tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Sappiamo che è una sfida dura: ma è una delle più belle che si possano trovare oggi in Italia!