Se c’è un argomento controverso nella disputa sulla tutela delle nostre lingue locali, è quello della cartellonistica bilingue.
Come mai una questione così apparentemente marginale come quella dei “cartelli in dialetto” suscita così tante passioni? Ne vale la pena? In questo articolo cercherò di dare qualche risposta valida.
Indice
Premessa
Mercoledì 21 settembre il consiglio comunale di Novara ha approvato una mozione per ripristinare all’ingresso della città i cartelli bilingui, che erano stati rimossi nel 2013 dall’allora sindaco Andrea Ballarè del Partito Democratico. La dinamica è piuttosto nota: a seconda del colore della giunta, i cartelli con la dicitura in lingua locale vengono posti o rimossi, con un inevitabile strascico di polemiche. Nel 2012 è successo ad Arcore (MB), Sant’Omobono (BG), Sorisole (BG), Palazzolo (BS) e Lecco, nel 2013 a Novara e Desenzano (BS), nel 2015 a Sassuolo (MO), nel 2016 a Ceresara (MN). Le date e i luoghi cambiano, ma le dinamiche e le polemiche son sempre le stesse.
Le ragioni addotte dalle giunte (spesso di centrosinistra) per la rimozione sono variegate:
- alcuni sostengono di voler rispettare il codice della strada;
- altri ritengono che per salvare il dialetto e l’identità “ci vuole ben altro” e che i cartelli siano solo una strumentalizzazione da parte degli avversari;
- altri affermano semplicemente che quei cartelli sono brutti;
- altri ancora rivendicano con orgoglio un atto politico teso a far uscire il proprio paese da una dimensio
ne provinciale e aprirlo al cosmopolitismo. Questo è stato, per esempio, il caso di Novara: il giorno della rimozione dei cartelli, il sindaco Ballarè postò su Facebook una foto del fatto, scrivendo che se ne andavano via “le ultime tracce del villaggio di Asterix“.
Di fronte a queste azioni, attivisti e persone comuni sono state spesso messe di fronte al fatto compiuto, con poche possibilità di cambiare la situazione. Servono a poco le proteste sulla rete (il gruppo FB “Rivogliamo i cartelli NUARA” conta 431 membri, il gruppo “Rimettiamo i cartelli LECCH” altri 320), così come le lettere inviate ai sindaci – un genere letterario di cui il sottoscritto è divenuto un esperto.
I successi in questa campagna sono stati pochi: nel 2014, muovendoci per tempo e avvertendo le associazioni locali, siamo riusciti a
scongiurare la rimozione dei cartelli bilingue a Bergamo; a Novara, la tenacia dell’Academia dal Risón (legata anche al nostro Comitato) ha fatto in modo che il Comune organizzasse nel 2015 una serie di iniziative a favore della parlata locale, pur rimanendo fermo nella decisione di non ripristinare i cartelli.
Con il cambio di giunta, la situazione è evidentemente cambiata. Il nostro Comitato non può che esserne contento.
Le domande comuni sui cartelli in dialetto
Poiché l’annuncio del ripristino dei cartelli bilingue a Novara ha suscitato nuove polemiche e acceso il dibattito, ho voluto cogliere l’occasione per scrivere qualcosa di definitivo in merito alla questione. Insomma…
I “cartelli in dialetto”:
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Servono davvero?
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Qual è la loro funzione?
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Sono provinciali, e magari anche brutti?
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Inneggiano alla chiusura verso gli estranei, alla discriminazione?
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Sono forse inutili, visto che “per salvare il dialetto ci vuole ben altro”?
D’altronde, è facile domandarsi se davvero un rettangolone di latta è determinante per salvare una lingua in via di estinzione.
Eppure è così: i “cartelli in dialetto” hanno un ruolo molto importante.
L’utilità della cartellonistica bilingue
- Come sappiamo l’unico modo per salvare davvero una lingua è tornare a parlarla e tramandarla alle generazioni successive;
- Per farlo, bisogna ridarle prestigio e dignità: senza una campagna di sensibilizzazione e sostegno, ben poche persone sentono il bisogno di usare una lingua considerata quasi inutile nei rapporti istituzionali.
- I cartelli bilingue contribuiscono a dare rilevanza pubblica alla lingua locale: non diventa quindi solo un fatto privato, qualcosa di nascosto, tollerato; bensì un elemento importante della vita pubblica di una comunità, tanto da apparire all’ingresso di paesi e città accanto alla lingua nazionale.
- Da questo punto di vista, la toponomastica bilingue rappresenta appieno l’identità di una comunità: accanto alla lingua nazionale viene presentata quella storica, parlata da secoli nel territorio e ancora presente, seppure con maggiore fatica. In questo non c’è chiusura o discriminazione: anzi, paradossalmente incoraggia molto di più al multilinguismo e alla diversità culturale di quanto lo sia un cartello scritto solo in italiano.
Questi concetti sono ben noti a tutti coloro che nel mondo lottano per la tutela delle lingue minoritarie.
Spesso è un modo per ristabilire nomi locali cancellati dalla forma “ufficiale” (che spesso non è altro che un adattamento o una storpiatura del nome originale).
Troviamo la segnaletica bilingue in tutte le comunità dove vengono tutelate le minoranze linguistiche: dalla Catalogna al Galles, dalla Lapponia alla Frisia, dalla Scozia alla Pomerania, dalla Galizia all’Istria, dalla Isole Åland alla Corsica. La troviamo in piccoli paesi come Ullapool (UK) a grandi città internazionali come Barcellona.
È un principio così basilare da trovarsi anche nella Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie, dove (art. 10, comma 2, lettera g) si afferma che
Le Parti si permettono a permettere e/o incoraggiare […] l’impiego o l’adozione, all’occorrenza congiuntamente con la denominazione nella(e) lingua(e) ufficiale(i), delle forme tradizionali e corrette della toponimia nelle lingue regionali o minoritarie.
Allo stesso modo in Italia la legge 482/99 sulle minoranze linguistiche prevede all’articolo 10 che
[…] in aggiunta ai toponimi ufficiali, i consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali.
E in effetti tutte le aree italiane dove sono state riconosciute minoranze linguistiche hanno diritto (ai sensi della celebre legge 482/1999) ai cartelli bilingue: basta fare un giro nelle valli ladine o in Friuli, ma anche in Sardegna o nei comuni arbëreshë del Meridione, per rendersene conto.
Dunque, le domande da farsi sono forse delle altre:
- perché alcune lingue avrebbero il diritto ai cartelli e altre no?
- perché per alcune comunità linguistiche si riconosce l’importanza dell’utilizzo della toponomastica e per altre invece no?
Temo che la risposta sia spesso una sola: al di là dei distinguo, dei “sì, però”, dei “ci vuole ben altro”, la vere ragioni nascoste dietro alla guerra dei cartelli sono dettate dal calcolo politico. Insomma, la lingua locale viene usata come strumento di ripicca tra partiti.
Ma qual è l’unica vittima di questi dispetti legati ai “cartelli in dialetto”? La lingua stessa.
Se si avesse davvero a cuore la lingua locale, come tutti i partiti assicurano, i cartelli bilingue non desterebbero alcuna polemica.
Invece è evidente che la lingua è solo un pretesto per combattere l’avversario politico.
Questo è senza dubbio l’aspetto più triste: le nostre lingue non hanno colori, sono un patrimonio di tutti, dell’intera comunità. La loro salvaguardia dovrebbe essere un valore per chiunque, e non materia di scontro. È necessario che le forze politiche facciano un enorme sforzo per superare la contrapposizione su questo tema.
Detto questo…
I “cartelli in dialetto” bastano?
La cartellonistica in lingua regionale risolve la questione “tutela delle lingue minoritarie”? Assolutamente no.
È solo l’inizio: non si può pensare di fermarsi al cartello d’ingresso: al di là di quell’insegna c’è un’enorme città di azioni da compiere, in cui bisogna inoltrarsi. Può sembrare faticoso, ma per fortuna ci sono numerosissimi esempi (all’estero e in Italia) che ci possono indicare la via.
Ma perché questo accada, bisogna riuscire a superare le contrapposizioni ideologiche, a partire dai cartelli. C’è bisogno di azioni politiche coraggiose, moderne e lungimiranti.
È vero, coi soli cartelli bilingue non si salvano le lingue: senza di essi, però, è ancora più difficile.
P.S.: a mo’ di chiusa condividiamo una canzone del cantante bergamasco Luciano Ravasio, dedicata ai toponimi locali della provincia di Bergamo; i quali, a detta dell’autore, “i è i prim che m’ha imparad, e scoltii perchè i è bèi!” (cioè “sono i primi che abbiamo imparato, e ascoltate perché sono belli!”).
D’accordo sul messaggio di fondo dell’articolo.
Qualche precisazione tuttavia su un paio di passaggi. Ad esempio sul fatto che il dialetto sarebbe la lingua “storica” del luogo, a fronte dell’italiano. Cosa e inesatta e fuorviante, giacché fa pensare che l’italiano sia piovuto lì chissà da dove e quando. In realtà anche l’italiano è una lingua storica. poiché per secoli è stata usata nella burocrazia e nella stessa toponomastica dei vari luoghi dell’Italia. Questo almeno otto volte su dieci, e per scelta stessa degli abitanti del luogo, o meglio dei suoi rappresentanti. Insomma il discorso non è sulla “storicità”, bensì sui registri linguistici nella scala sociale: per secoli infatti in Italia le classi colte conoscevano e usavano le due lingue (nazionale per l’ufficialità e il potere, e locale nella comunicazione con le altre) quelle più basse una sola, il dialetto.
E qui vengo quindi all’altro punto, quando si cita il caso dell’Istria come esempio di quanto parliamo. Ora, a prescindere che il bilinguismo in Istria non è integrale (anzi larga parte sel territorio istriano – in Slovenia e Croazia – è monolingue), stiamo parlando di un bilinguismo che è sloveno/italiano (nella parte slovena) e croato/italiano (parte croata). Questo quando in Istria c’è una molteplicità impressionante fi dialetti. Ci sono il ciakavo, l’istroveneto, l’istrioto, i diaketti savrini e carsici, oltre allo stokavo (della comunità montenegrina di Peroi) nonché alla lingua istrorumena. Tanto per capire. Ebbene: queste sono tutte cose che non hanno rappresentanza visiva, se si escludono alcuni folkloristici cartelli in istrioto a Rovigno. E poco altro. Tutto ciò anche per evidenti ragioni di spazio. Quindi l’Istria è un esempio quasi opposto a quello che si vorrebbe portare.
Ci sarebbe poi da parlare delle “minoranze linguistiche”, ma per ora mi fermo qui.
Grazie della risposta.
Innanzitutto, sarebbe giusto precisare che è vero che l’italiano è presente storicamente in ampie parti d’Italia, ma di sicuro non al livello della lingua locale, e di certo a partire da un periodo di tempo successivo, Penso che sia fuorviante affermare che l’italiano è stato la lingua autoctona, chessò, di Varese nella stessa misura in cui lo è stato il lombardo (ovviamente al giorno d’oggi il discorso è diverso). Questo comunque non toglie che gran parte dei toponimi italiani sono adattamenti di quelli originali locali – se non proprio sostituzioni complete, come Guiù che diventa Prevalle e Pendolasch che diventa Poggiridenti (ma questi sono casi rari).
Riguardo alla situazione istriana, potremmo dire che è analoga (mutatis mutandis) a quella dell’Alto Adige o della Valle d’Aosta, dove la coufficialità non è con la/e lingua/e locale/i, ma con quella “nazionale” di maggior prestigio: e dunque col francese al posto dell’arpitano, col tedesco al posto del bavarese e l’italiano al posto di veneto e istrioto.
Io non ho parlato di lingua autoctona. Ho parlato in merito alla “storicità” della lingua, in relazione a quanto tu dici nel tuo articolo. L’autoctonia poi è un terreno abbastanza scivoloso, dal momento che in Italia – come in vaste altre aree dell’Europa occidentale – nell’antichità si parlava una lingua, e poi c’è stata la romanizzazione. E quale lingua deve considerarsi autoctona? Quella preromana (che neanche conosciamo)? O quella (neo)romanza? O tutte e due? Tornando all’italiano, la sua “storicità” nelle varie regioni d’Italia (salvo poche eccezioni, ripeto) è un dato di fatto. Così come è un dato di fatto che la scelta di questo modello linguistico è stata fatta secoli fa da chi, in loco, gestiva le cose. Non è mica piovuta dall’alto. Così come non sono piovute dall’alto le successive italianizzazioni di alcune località (dal dialetto all’italiano cioè), sulle quali ci sarebbe non poco altro da dire, in merito ai motivi e ai contesti che le hanno generate o possono averle generate. Inoltre, per quanto possa sembrare brutto ricordarlo e accettarlo per alcuni, la scelta dell’italiano nasce nell’ambito di una forma veicolare tra la lingua del luogo e una lingua “alta”. Questo per sottolineare che non è che si tratti di chissà quale lingua “staccata” (per restare nelle espressioni utilizzate dai linguisti) dalle parlate locali.
Il che, non da ultimo, spiega anche i motivi del perché il bilinguismo in Istria, così come in Alto Adige o in Valle d’Aosta, o altrove, sia codificato in quel modo. In breve, in queste terre di confine, si adotta la rappresentazione delle lingue nazionali. Non di quelle locali.
Prima di spendere soldi pubblici per delle cose perfettamente inutili, bisogna cercare di usare un po’ di buon senso e onestamente investire le risorse in cose piu’ importanti. Non serve che vi dica dove ma certamente non in un pezzo di lamiera sulla strada che crea solo confusione per gli automobilisti che arrivano da lontano o dall’estero. Certamante non e’ cosi’ che si conserva i dialetti locali (cosidetti lingue vedi Friuli).